"Breve non è privo di senso": una nota sul poeta Ekner e sul suo "Dopo molte migliaia di radiazioni"
In un contesto socio-politico e culturale come quello odierno, in cui morte e malattia sono un segmento d’esistenza da rimuovere o cancellare, appare doveroso leggere Reidar Ekner e il suo pometto «Efter flera tusen rad», ovvero «Dopo molte migliaia di radiazioni», edito da Scheiwiller con la curatela di Anna Ruchat nella collana «Poesia» diretta da Giovanni Raboni nel 1974.
Il
dramma di un genitore che ha visto giorno dopo giorno la sua bambina
svanire è cantato con una naturalezza che ha matrice nell’assunzione
quasi religiosa della vitalità del defunto. Il poemetto, dedicato
alla figlioletta Torun, morta di tumore nel 1973, è scandito sul
filo di un respiro che avvicina l’io lirico al punto in cui
l’esistenza registra il massimo della propria intensità: la
perdita di senso. Quando un figlio muore, bisogna risanare la vita, e
nulla può restituire significato se non rievocare a sé frammenti e
sensazioni che nel processo doloroso del ricordo si accompagnano al
respiro di chi non c’è più:
Respiri ancora, bambina mia. Dormi tranquilla
Senza sogni, anche se da tempo è svanita
la speranza. Per un paio d’ore ancora
la medicina tiene lontani i dolori
ma poi ritornano e ti svegliano
per un’altra iniezione. Di nuovo
ti aggrappi alla mia mano
-papà, vieni!- e gridi
Finché non tolgono l’ago dalla coscia
E il bruciore finisce. La chiedi tu
Ora l’iniezione, ferma e tranquilla
Mentre un tempo eri grigia di paura
Appena sentivi il debole tintinnio
Del “carrello degli aghi” davanti alla porta.
Ora ci preghi tu di fartela. Lo sai,
ti aiuta, anche solo
per un momento, sì, lo sai, ti permette
di sopportare la pena.
La
malattia figura come una dimensione senza tempo. O meglio, lo
scorrere del tempo perde significato perché si accompagna allo
sfumare dei sogni, delle speranze. Torun cessa, nella sofferenza, di
essere un prolungamento del genitore che la assiste per curarsi di
lui e prenderne così il posto nella morte:
Qualche volta mi chiedo
-sono io che aiuto te
o tu che aiuti me?
Tu pensi a tutti, hai una parola
per ognuno di noi. Ci consoli
quando perdiamo la pazienza
e quando t’accorgi delle lacrime
perché vederti fa così male.
Non vuoi che noi ti carezziamo,
ma ci carezzi tu perché
ci ami tutti. Perdoni le nostre
debolezze, perché ci ami
come siamo, con la nostra scarsa pazienza.
Pieni di calore splendono i tuoi occhi acuti
fin dentro di noi. Ci capisci
meglio di noi stessi. Bambina mia,
da dove ti è giunto questo sapere?
Torun
è immersa da viva nella morte: ciò fa sì che possa derivarle un
sapere antico, di gran lunga superiore ai suoi anni. E tuttavia, in
ragione di questa consapevolezza, è decisa a precorrere tutte le
domande che potrebbero sorgere in una bambina che si accinge a
diventare adolescente:
Nell’inverno divenisti, ancora bambina, adulta.
Era come se sentissi esattamente
che a quel punto il tuo tempo era breve. Ci chiedesti
cos’è il sesso, volesti conoscerne
i segreti, e sapere
che funzione ha la clitoride.
Ti spiaceva per i bambini che non imparano
cos’è il vero amore.
Dettasti una lettera
al ragazzino di cui eri innamorata, e lo invitasti
a decidersi – allora ci sposiamo o no?
Quando lui finalmente disse di sì,
benché secondo lui foste un po’ giovani:
tu non ancora otto anni e lui poco di più,
ti calmasti e dicesti con occhi felici a tutti
quelli che ti venivano a trovare,
che finalmente eri fidanzata!
Eccolo, è lui mio marito!
Ancora respiri, di nuovo una bambina.
Una morte che si fa aspettare, mese per mese,
una morte che ha tenuto la vita dal corpo
in tutti questi difficili giorni di un mezzo anno,
una simile morte non può essere la realtà! Come
una bambina, sei pronta a credere ancora
che tornerai in salute.
Vorresti mangiare un gelato,
ma solo quando sarai di nuovo a casa,
e potrai sedere e stare attenta
che non ti sgoccioli sul letto.
Torun, pur precorrendo in
sapienza i propri anni, deve restare bambina, almeno nel corpo:
questo solo può consentire al genitore l’illusione che il tempo,
fiancheggiato dall’imminenza della morte, non giunga a portargli
via la figlia. Non casualmente, il poemetto è segnato da sequenze
narrative fra le quali l’avvicendarsi dei ricordi è pausato dal
ripetersi di un verso, «respiri ancora, bambina mia», come se il
poeta avesse concepito «Efter flera tusen rad» nel solco di un
respiro, quello di Torun, che, sebbene la morte, in qualche modo
ancora continua. Nella malattia ogni concezione fideistica o
ultraterrena si sgretola per cedere il posto a una visione del tempo
dilatata che spinga Torun e il genitore verso la ricerca di altri
significati. La morte è intrinseca alla vita, il confine tra le due
è labile e il tumore lo rende visibile sia al malato sia a chi
assiste quest’ultimo:
Come può esserci vita, come può essere la vita
tanto tenace e forte in un corpo così
indescrivibilmente piccolo e magro?
Quando il dolore era più acuto
spesso te lo sei augurata
di morire, hai desiderato di poterti sparare.
Ad alta voce dicevi: «Buon Dio, fa
ch’io possa camminare ancora con le mie gambe!»
Ma una sola, un’unica volta, t’ho visto
che piangevi, e allora dicesti:
«Non ti spaventare se mi scende
per le guance qualcosa di umido e caldo». Ho toccato
la tua guancia umida e tu hai detto:
«A volte si è contenti, a volte
tristi». Eri triste,
nell’anima, perché sentivi
che non c’era più speranza.
Già in autunno hai sentito che il tuo tempo
era contato. L’ho capito quando mi pregasti
di mostrarti la chiesa cui tante volte
eravamo passati davanti.
La porta era aperta e noi siamo entrati piano.
Eri lì sola e silenziosa al mio fianco
nella navata fredda. Eri lì come una luce
e poi hai voluto che ti leggessi i nomi – tutti!-
sulle lapidi, fuori, al sole,
in quel gran verde. Cosa pensavi
non l’hai detto, credo,
non volessi rattristarmi.
Qualche volta, da allora, hai ripreso l’argomento.
Mi hai chiesto, cosa accade ai morti,
dimmi, diventano terra?
Sì, diventano terra, ma solo
il corpo, non ciò che tu sei, non l’anima,
che col pensiero può essere là
dove non c’è il corpo.
Torun
avverte la morte solcare, giorno dopo giorno, il suo corpo e,
nell’osservarla, la indaga con l’amarezza di una bambina che
nella malattia ha visto cadere le illusioni dell’infanzia.
Interroga il padre, chiede che cosa accada ai morti, legge i nomi
sulle lapidi. Ma la morte livella ogni cosa, in essa ogni nome si
annulla, il corpo diventa terra. Eppure, qualcosa le resiste, dice il
padre, l’anima può essere là dove il corpo è già svanito.
L’anima di Torun è il respiro che lega la narrazione: Ekner ha
inteso preservarla per mezzo della poesia, conscio del fatto che la
vita si rigenera nella morte e che quest’ultima si perpetua nel
respiro. Il senso dell’esistenza è allora lì, nella terra:
Il senso della vita
è lì, nella terra.
Nel buio, nel buio
Piccole ossa bruciate, frantumate
Schegge, briciole, cenere!
Brilla, stella, sotto la Grande Orsa
su mia figlia
là, nella terra!
Il corpo si corrompe, è un addensamento di atomi che per caso si uniscono e poi si disgregano. Così è secondo il dharma, ovvero la «Legge cosmica» che regola i processi di vita e morte e condensa in nuovi agglomerati ciò che si è disunito:
-un addensamento sei tu, uomo
nell’universo
il tuo dharma ti crea, ti tiene insieme
torce la sua spirale attraverso ciascuna delle tue cellule
costruisce, si suddivide, istruisce, ripara.
Il grande Istruttore, Custode
della Saggezza
attraverso la tua bocca aperta passa il nutrimento
l’aria spira nelle ramificazioni dei tuoi polmoni
anche la pelle è permeabile
onde radio, fotoni, neutrini ti attraversano,
come se tu non ci fossi.
Cresci e poi muori
nient’altro che corpi cavernosi del micelio che
spuntano rapidi e rapidi si piegano
nient’altro che un fiorire di alghe, un riflesso sul mare
il bagliore di una stella
E dentro di te danneggiate
Tossiche catene, i prodotti di fissione
delle esplosioni atmosferiche
dei processi nucleari
[…]
Da qualche parte compaiono sedimentazioni oscure
Una nebbia sempre più fitta avvolge il tuo dharma
L’istruttore si affanna su e giù per la scala
a spirale
gli sembra infinita, si verificano errori, non appena
li trova
da qualche parte la casa si dilata senza più ordine
dalle scale
ed è pronta a crollare
le tue componenti non sono più in grado
di assolvere al loro compito
ti piantano in asso
ancora per un istante il tuo dharma si libra su ciò
che sei stato
Poi svanisce, si condensa in nuovi agglomerati
Altri compiti attendono
La materia si corrompe perché non esiste un ordine perfetto secondo cui le cose vengono alla vita. L’«Istruttore» è anch’egli fallibile e soggiace a condizioni che sono al di là delle sue effettive capacità di governarle. Ecco che il pensiero orientale appare, agli occhi del poeta, meglio improntato a spiegare il mistero di vita e morte, giacché non concepisce un dio perfetto e dall’operato ineccepibile. Ekner così conclude il poemetto, tentando un’attribuzione di significato a un’esistenza, quella della figlia, che, seppur breve, è stata intensa, giacché «il tempo prima della morte è parte della vita» e «breve non è privo di senso».
Le due foto presenti sono scatti di Pietro Romano