"Breve non è privo di senso": una nota sul poeta Ekner e sul suo "Dopo molte migliaia di radiazioni"

 


a cura di Pietro Romano


In un contesto socio-politico e culturale come quello odierno, in cui morte e malattia sono un segmento d’esistenza da rimuovere o cancellare, appare doveroso leggere Reidar Ekner e il suo pometto «Efter flera tusen rad», ovvero «Dopo molte migliaia di radiazioni», edito da Scheiwiller con la curatela di Anna Ruchat nella collana «Poesia» diretta da Giovanni Raboni nel 1974.

Il dramma di un genitore che ha visto giorno dopo giorno la sua bambina svanire è cantato con una naturalezza che ha matrice nell’assunzione quasi religiosa della vitalità del defunto. Il poemetto, dedicato alla figlioletta Torun, morta di tumore nel 1973, è scandito sul filo di un respiro che avvicina l’io lirico al punto in cui l’esistenza registra il massimo della propria intensità: la perdita di senso. Quando un figlio muore, bisogna risanare la vita, e nulla può restituire significato se non rievocare a sé frammenti e sensazioni che nel processo doloroso del ricordo si accompagnano al respiro di chi non c’è più:

Respiri ancora, bambina mia. Dormi tranquilla

Senza sogni, anche se da tempo è svanita

la speranza. Per un paio d’ore ancora

la medicina tiene lontani i dolori

ma poi ritornano e ti svegliano

per un’altra iniezione. Di nuovo

ti aggrappi alla mia mano

-papà, vieni!- e gridi

Finché non tolgono l’ago dalla coscia

E il bruciore finisce. La chiedi tu

Ora l’iniezione, ferma e tranquilla

Mentre un tempo eri grigia di paura

Appena sentivi il debole tintinnio

Del “carrello degli aghi” davanti alla porta.

Ora ci preghi tu di fartela. Lo sai,

ti aiuta, anche solo

per un momento, sì, lo sai, ti permette

di sopportare la pena.


La malattia figura come una dimensione senza tempo. O meglio, lo scorrere del tempo perde significato perché si accompagna allo sfumare dei sogni, delle speranze. Torun cessa, nella sofferenza, di essere un prolungamento del genitore che la assiste per curarsi di lui e prenderne così il posto nella morte:

Qualche volta mi chiedo

-sono io che aiuto te

o tu che aiuti me?

Tu pensi a tutti, hai una parola

per ognuno di noi. Ci consoli

quando perdiamo la pazienza

e quando t’accorgi delle lacrime

perché vederti fa così male.

Non vuoi che noi ti carezziamo,

ma ci carezzi tu perché

ci ami tutti. Perdoni le nostre

debolezze, perché ci ami

come siamo, con la nostra scarsa pazienza.

Pieni di calore splendono i tuoi occhi acuti

fin dentro di noi. Ci capisci

meglio di noi stessi. Bambina mia,

da dove ti è giunto questo sapere?


Torun è immersa da viva nella morte: ciò fa sì che possa derivarle un sapere antico, di gran lunga superiore ai suoi anni. E tuttavia, in ragione di questa consapevolezza, è decisa a precorrere tutte le domande che potrebbero sorgere in una bambina che si accinge a diventare adolescente:

Nell’inverno divenisti, ancora bambina, adulta.

Era come se sentissi esattamente

che a quel punto il tuo tempo era breve. Ci chiedesti

cos’è il sesso, volesti conoscerne

i segreti, e sapere

che funzione ha la clitoride.

Ti spiaceva per i bambini che non imparano

cos’è il vero amore.

Dettasti una lettera

al ragazzino di cui eri innamorata, e lo invitasti

a decidersi – allora ci sposiamo o no?

Quando lui finalmente disse di sì,

benché secondo lui foste un po’ giovani:

tu non ancora otto anni e lui poco di più,

ti calmasti e dicesti con occhi felici a tutti

quelli che ti venivano a trovare,

che finalmente eri fidanzata!

Eccolo, è lui mio marito!





Osservare la morte lentamente progredire su chi è ancora vivo significa registrare non solo l’assenza di tempo, ma anche l’ampliarsi di una durata nella quale possono rinvigorirsi vane speranze. La malattia diviene un viaggio estenuante fuori dai limiti della temporalità: essa allontana la vita dal corpo, quest’ultimo sempre più refrattario a ogni tentativo di controllo da parte del suo ospite:




Ancora respiri, di nuovo una bambina.

Una morte che si fa aspettare, mese per mese,

una morte che ha tenuto la vita dal corpo

in tutti questi difficili giorni di un mezzo anno,

una simile morte non può essere la realtà! Come

una bambina, sei pronta a credere ancora

che tornerai in salute.

Vorresti mangiare un gelato,

ma solo quando sarai di nuovo a casa,

e potrai sedere e stare attenta

che non ti sgoccioli sul letto.


Torun, pur precorrendo in sapienza i propri anni, deve restare bambina, almeno nel corpo: questo solo può consentire al genitore l’illusione che il tempo, fiancheggiato dall’imminenza della morte, non giunga a portargli via la figlia. Non casualmente, il poemetto è segnato da sequenze narrative fra le quali l’avvicendarsi dei ricordi è pausato dal ripetersi di un verso, «respiri ancora, bambina mia», come se il poeta avesse concepito «Efter flera tusen rad» nel solco di un respiro, quello di Torun, che, sebbene la morte, in qualche modo ancora continua. Nella malattia ogni concezione fideistica o ultraterrena si sgretola per cedere il posto a una visione del tempo dilatata che spinga Torun e il genitore verso la ricerca di altri significati. La morte è intrinseca alla vita, il confine tra le due è labile e il tumore lo rende visibile sia al malato sia a chi assiste quest’ultimo:

Come può esserci vita, come può essere la vita

tanto tenace e forte in un corpo così

indescrivibilmente piccolo e magro?

Quando il dolore era più acuto

spesso te lo sei augurata

di morire, hai desiderato di poterti sparare.

Ad alta voce dicevi: «Buon Dio, fa

ch’io possa camminare ancora con le mie gambe!»

Ma una sola, un’unica volta, t’ho visto

che piangevi, e allora dicesti:

«Non ti spaventare se mi scende

per le guance qualcosa di umido e caldo». Ho toccato

la tua guancia umida e tu hai detto:

«A volte si è contenti, a volte

tristi». Eri triste,

nell’anima, perché sentivi

che non c’era più speranza.

Già in autunno hai sentito che il tuo tempo

era contato. L’ho capito quando mi pregasti

di mostrarti la chiesa cui tante volte

eravamo passati davanti.

La porta era aperta e noi siamo entrati piano.

Eri lì sola e silenziosa al mio fianco

nella navata fredda. Eri lì come una luce

e poi hai voluto che ti leggessi i nomi – tutti!-

sulle lapidi, fuori, al sole,

in quel gran verde. Cosa pensavi

non l’hai detto, credo,

non volessi rattristarmi.

Qualche volta, da allora, hai ripreso l’argomento.

Mi hai chiesto, cosa accade ai morti,

dimmi, diventano terra?

Sì, diventano terra, ma solo

il corpo, non ciò che tu sei, non l’anima,

che col pensiero può essere là

dove non c’è il corpo.


Torun avverte la morte solcare, giorno dopo giorno, il suo corpo e, nell’osservarla, la indaga con l’amarezza di una bambina che nella malattia ha visto cadere le illusioni dell’infanzia. Interroga il padre, chiede che cosa accada ai morti, legge i nomi sulle lapidi. Ma la morte livella ogni cosa, in essa ogni nome si annulla, il corpo diventa terra. Eppure, qualcosa le resiste, dice il padre, l’anima può essere là dove il corpo è già svanito. L’anima di Torun è il respiro che lega la narrazione: Ekner ha inteso preservarla per mezzo della poesia, conscio del fatto che la vita si rigenera nella morte e che quest’ultima si perpetua nel respiro. Il senso dell’esistenza è allora lì, nella terra:

Il senso della vita

è lì, nella terra.

Nel buio, nel buio

Piccole ossa bruciate, frantumate

Schegge, briciole, cenere!


Brilla, stella, sotto la Grande Orsa

su mia figlia

là, nella terra!


Il corpo si corrompe, è un addensamento di atomi che per caso si uniscono e poi si disgregano. Così è secondo il dharma, ovvero la «Legge cosmica» che regola i processi di vita e morte e condensa in nuovi agglomerati ciò che si è disunito:


-un addensamento sei tu, uomo

nell’universo

il tuo dharma ti crea, ti tiene insieme

torce la sua spirale attraverso ciascuna delle tue cellule

costruisce, si suddivide, istruisce, ripara.

Il grande Istruttore, Custode

della Saggezza

attraverso la tua bocca aperta passa il nutrimento

l’aria spira nelle ramificazioni dei tuoi polmoni

anche la pelle è permeabile

onde radio, fotoni, neutrini ti attraversano,

come se tu non ci fossi.

Cresci e poi muori

nient’altro che corpi cavernosi del micelio che

spuntano rapidi e rapidi si piegano

nient’altro che un fiorire di alghe, un riflesso sul mare

il bagliore di una stella


E dentro di te danneggiate

Tossiche catene, i prodotti di fissione

delle esplosioni atmosferiche

dei processi nucleari

[…]

Da qualche parte compaiono sedimentazioni oscure

Una nebbia sempre più fitta avvolge il tuo dharma

L’istruttore si affanna su e giù per la scala

a spirale

gli sembra infinita, si verificano errori, non appena

li trova

da qualche parte la casa si dilata senza più ordine

dalle scale

ed è pronta a crollare

le tue componenti non sono più in grado

di assolvere al loro compito

ti piantano in asso

ancora per un istante il tuo dharma si libra su ciò

che sei stato

Poi svanisce, si condensa in nuovi agglomerati

Altri compiti attendono


La materia si corrompe perché non esiste un ordine perfetto secondo cui le cose vengono alla vita. L’«Istruttore» è anch’egli fallibile e soggiace a condizioni che sono al di là delle sue effettive capacità di governarle. Ecco che il pensiero orientale appare, agli occhi del poeta, meglio improntato a spiegare il mistero di vita e morte, giacché non concepisce un dio perfetto e dall’operato ineccepibile. Ekner così conclude il poemetto, tentando un’attribuzione di significato a un’esistenza, quella della figlia, che, seppur breve, è stata intensa, giacché «il tempo prima della morte è parte della vita» e «breve non è privo di senso».






Le due foto presenti sono scatti di Pietro Romano

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