"...È mezz’agosto, il cielo / terso aveva taciuto" | Un percorso nei versi di Alfredo Rienzi
Propongo
oggi un percorso all’interno della scrittura di Alfredo Rienzi,
prendendo spunto dall’ultima sua silloge “Sull’improvviso”
(Arcipelago Itaca, 2021, prefazione di M. Cucchi).
Rienzi
ha alle sue spalle un’importante produzione poetica, ed è un poeta
raffinato, colto, complesso e coinvolgente. Il mio scritto non vuole
essere una lettura completa della sua ultima opera, ma solamente il
tentativo di entrare in contatto con alcuni aspetti della sua
poetica, cosa non sempre semplice, per quanto molto interessante e
affascinante. Per poterlo fare, dopo una breve presentazione della
raccolta, mi avvarrò dell’aiuto del poeta stesso che si è
prestato, gentilmente, a rispondere ad alcune domande.
Questa ultima silloge di Alfredo Rienzi è un’opera in cui pensiero, spirito di osservazione, sensibilità e predisposizione all’intuizione giocano un ruolo fondamentale, ed è quasi come se si fondessero per costituire un elemento unico, articolato e vivo, che si pone al servizio della poesia. Ciò che interessa al poeta sembra essere l’istante indefinibile e mai colto completamente dell’accadere, la percezione dell’apparire di un fenomeno inaspettato, gli aspetti misteriosi che sfuggono ai sensi e che sappiamo far parte del nostro essere al mondo. Stefano Vitale, all’interno di una recensione su questo libro, scrive: “Nella poesia di Rienzi è bello vedere come salti per l’aria l’idea astratta dell’attimo: egli tenta invece di entrare nella fenomenologia concreta dell’attimo stesso. Rienzi vuol esprimere l’erlebnis, il vissuto dell’istante, vuole afferrare, cosa forse impossibile, il lampo del suo accadere.”
“Qualcuno sa dire quando è accaduto? / Quando il cielo s’è macchiato di viola? / (pag. 22)
“Ele, il primogenito, ha il suo destino / sul ramo più alto della magnolia// entrerà dall’occipite / il fulmine. È mezz’agosto, il cielo / terso aveva taciuto. (pag. 13)
Se da una parte il poeta scrive i suoi versi procedendo verso un’osservazione accurata di certe manifestazioni reali, dall’altra sa e sperimenta che il senso dell’accadere è da porsi in un territorio in cui non vigono le regole della logica consueta. Una poesia, quindi, che talora prende vita da un’analisi oggettiva, tipica dell’uomo di scienza, per sconfinare, attraverso un percorso sorprendente e vivo, in un oltre dove ci si affida soprattutto alla potenza fulminea dell’intuizione. Nella nota introduttiva al libro l’autore scrive: “La poesia si fa quindi strumento ulteriore, tenta il superamento dell’occhio-ragione, rischiando di tangere l’immaginifico e il fantastico, per attingere all’intuizione.”
Riporto, qui sotto e per intero, la poesia a pag. 40.
Esempio insustanziale dell’improvviso / fu degli sguardi l’incrociarsi. Tutto / l’amore concepito / da ogni creatura di fibra e spirito / dall’alba primordiale all’ultimo dei tempi / si concentrò su quelle traiettorie / Poi esplose
Sempre nella succitata nota introduttiva il poeta scrive: “In questo scenario indeterminato, il verso resiste appena alla memoria del dettato ritmico- mai rinnegato-, ma tende anch’esso a frangersi, a desistere. Se improvviso è anche lo scarto tra visibile e invisibile, pure la materia verbale tende talvolta a perdere continuità, a incrinare la sua linearità”.
Partendo da questo presupposto, ho chiesto al nostro autore di approfondire la sua interessante asserzione, facendo, qualora lo ritenga utile, alcuni esempi.
In
corsivo sono riportate le parole di Alfredo Rienzi.
L’adesione
ad un “ritmo”, elemento fondante di tutto ciò che per secoli è
stato definibile “poesia”, è passaggio che non può essere eluso
dal poeta. Anche quando ciò avviene per negazione, optando per versi
liberi o finanche disritmici o disarmonici, il totem del ritmo è ben
piantato sul terreno della poesia.
Personalmente cerco rifugio in
un dettato dominato, comunque, da versi imparisillabi (specie di
sette e undici sillabe), magari spuri, forzando dieresi ed elisioni,
ma talora subentra la necessità di frazionamento, di soste
improvvise. In sincerità credo ora che la mia affermazione sarebbe
più aderente alla realtà della raccolta sostituendo quel “resiste
appena” (influenzato di più dalla prima sezione) da “rischia di
allontanarsi", perché i primi riscontri dei lettori, mi
rimandano un’impressione di maggior compattezza formale e ritmica
di quanto pensassi.
In
ogni caso, nel mio scrivere, le tensioni sul ritmo, più che
generarsi dal pensiero (inteso sia come progetto strutturale che, più
spesso, come entità da rivestire della materia verbale) riflettono
l’influenza di questo su un piano emozionale, ma in realtà spesso
si tratta di un circuito, dove la testa e la coda del serpente si
congiungono.
Un messaggio più “concettualizzato” magari vorrà
veicolare un messaggio più “diretto”, “razionale” a minor “
levitazione emozionale” e potrà generarsi un verso più fluido,
ritmico (foss’anche atonale) senza fratture e sospensioni interne.
Possono venirmi in mente testi, per restare ne Sull’improvviso,
quali “Nell’urto, per l’effetto dell’impatto” (pag. 54) o
“Dissentivamo: tu a sostenere” (pag. 28). Altri, la maggioranza,
pur retti da settenari o endecasillabi tendono a frantumarsi o
rarefarsi a causa dello “stupore” o delle “pause diastoliche”
che si producono alla scrittura-lettura. Per esempio, nel testo a
pag. 51 (Nasce oggi a / questa sua / nuova / vita) voler trattenere
un possibile endecasillabo in unità ritmica perde senso alla
lettura, che deve essere franta, perché il pensiero si inceppa nel
farsi emozione e poi parola.
Secondo la tua esperienza, il poeta riesce a individuare il percorso mentale che precede la genesi dei suoi versi? C’è sempre un pensiero che li tiene insieme e che si possa spiegare?
Succede a volte che la parola arrivi da chissà dove, non sempre riusciamo a recuperare il pensiero che ha sostenuto alcuni versi. In Partenze e promesse. Presagi, per esempio, i testi in corsivo di Conosco l’ora della mia morte, marcati da lettera greca, accadono con controllo minimo, accolgono immagini e slanci frastici a volte quasi deliranti (poi, dopo, li si lavora un po’, si aspetta che la lava si sia raffreddata e si scalpella un po’).
Può
accadere che la parola bypassi il gate razionale di controllo e vada
ad aggrapparsi sulla pagina. Ne riconosco, forse, una forza maggiore,
magari perché è più debole, in quei casi, il poeta della poesia.
Non so se sono riuscito – non a spiegare – ma a far intuire
qualcosa.
A
pagina 29 scrivi:
A cosa può essere paragonato quel suono ottuso?
La partenza, in qualche modo è sinonimo di vita. È la fase di inizio di ogni evento o ciclo degli eventi. Come tale è inevitabile, quotidianamente, stagionalmente, in ogni frazione di tempo, incontrare – attivamente o passivamente – inizi e partenze (e assistere a compimenti o trasformazioni). Sono inevitabili, tranne che nella temporanea assenza di alcune sospensioni di tempo. Una fattispecie di “partenza”, come quella che sorregge questi versi, è quella dei nostri cari o compagni di strada che si allontanano da noi, anche definitivamente, almeno sul piano materiale. La morte della madre (nella raccolta i testi del “commiato” sono ad essa legati) è sempre qualcosa che non si riesce mai a vivere nella carne e nello spirito prima che ciò accada, accoglie sempre un volto che si scopre improvvisamente nero, un suono che non è un canto o una musica, ma un rumore profondo, “ottuso”.
Per
concludere due domande di carattere più generale.
Come
nutri la tua ispirazione poetica?
Questa
è una di quelle domande la cui risposta può dire poco o nulla,
secondo me. Per le quali potrei fare lunghi giri di parole e tornare
a mani vuote al punto di partenza. E soprattutto esprimere scarse
consapevolezze. Non tanto dei meccanismi, che posso aver imparato a
riconoscere, ma sul largo concetto del nutrire. Forse, per dare una
risposta sintetica, ma vera (forse e vera non vanno proprio tanto
d’accordo, ma soprassediamo…) non faccio proprio nulla per
nutrirla; non credo sia nemmeno necessario farlo. Se c’è, questa
nominata “ispirazione” fa tutto lei. L’unico nutrimento che
posso metterle a disposizione è vivere, qualunque cosa ciò possa
contenere o significare. Posso, al contrario, addirittura agire
all’opposto: riconosco la forte stimolazione che alcune situazioni
(musica, cinema, espressioni artistiche in senso ampio, letture ad
ampio spettro ecc) determinano. Quasi una iperstimolazione bulimica,
spesso dolente, ingombrante. Ecco, in queste situazioni, che
volutamente centellino, l’impegno sta nel deprivarne le possibili
fonti, nell’accoglierne solo alcune schegge e particelle.
Quali
sono i poeti, o se preferisci le opere poetiche, che ami
particolarmente?
La meraviglia della lettura poetica, grazie anche alla diffusione della rete, è che consente esplorazioni pressoché infinite o, comunque, superiori alle possibilità di assorbimento del singolo lettore. Mi piacerebbe introdurre un concetto di “voce collettiva” che prescinda dai singoli autori, un concetto di “poetiche” più che di poeti, ma per stare al gioco, elenco due decine di nomi assortiti, di poeti non più viventi, una di italiani, l’altra di stranieri:
Mario Luzi, Piero Bigongiari, Andrea Zanzotto, Eugenio Montale, Maria Luisa Spaziani, Arturo Onofri, Angelo Maria Ripellino, Dino Campana, Margherita Guidacci, Cristina Campo.
Oltrefrontiera:
su tutti Jorge
Luis Borges,
poi William
Butler Yeats, Fernando Pessoa, Thomas Stern Eliot, Rainer Maria
Rilke, Tomas Tranströmer, Dylan Thomas, Seamus Heaney, Ingeborg
Bachmann, Leopold Sédar Senghor.
Ringrazio
di cuore il nostro poeta e riporto infine alcuni testi tratti da
“Sull’improvviso”.
Ci fu un problema di carne, di sangue
che s’ostinava a volgere in acqua
e da questa in aria
(sostanza sorellastra del nulla)
qualcuno, qualcosa, (vago,
poco definito, appena più
di un’ombra, premeva con blanda inerzia)
voleva essere, ma si fermò.
Non fu
e
nessuno seppe.
*
Questa luce che ora
torna a crescere
dove la deporremo
spenti gli occhi in una notte di dicembre?
c’è stato tempo per disporsi, dici
verso il giusto angolo d’occidente
è che il tempo non è mai quello giusto
e le partenze hanno il suono ottuso
della
frana che coglie all’improvviso
*
TERZO
TEMPO PER IL COMMIATO
Ma io non sono partita all’improvviso
e quando ho cercato di dirti muoio
la parola era fango
e quando ho pensato muoio, non andare via
il pensiero non ha avuto forza d’esser voce
così ti sei allontanato,
nell’ora
e quando tu, tornando, hai sussurrato al freddo
che nell’orecchio mi assaliva
non avere paura
ora puoi di nuovo camminare
e forse volare
l’albero di ciliegio stava fiorendo, perché era dicembre
e là dove mi stavo incamminando
anche
a dicembre fioriscono i ciliegi.
*
Aveva l’occhio il compito suo certo
(socchiuso, semiaperto, o spalancato):
l’esaminare nudo stelle
di sesta e di settima grandezza
è lì la linea che flette il visibile
al nascosto, e al nero
la ritrosia dei fuochi
Alfredo
Rienzi vive dalla prima infanzia nel torinese.
Ha pubblicato diversi
volumi di poesia, da Contemplando segni, X Premio Montale, in
7 poeti del Premio Montale (Scheiwiller, pref. di M. L.
Spaziani) a Sull’improvviso, edito da Arcipelago itaca
(2021, pref. di M. Cucchi), premio InediTO - Colline di Torino.
Ha
tradotto testi da OEvre poétique di L. S. Senghor, in
Nuit d’Afrique ma nuit noire – Notte d’Africa mia notte
nera, a cura di A. Emina (Harmattan Italia, 2004) e
pubblicato il volume di saggi Il qui e l’altrove nella poesia
italiana moderna e contemporanea (Ed. dell’Orso, 2011).
È
inserito nell'Atlante dei poeti dell'Università di Bologna e
in numerose antologie critiche nazionali.
Gestisce il blog “Di
sesta e di settima grandezza”
(https://alfredorienzi.wordpress.com/)
dov’è disponibile una nota biobibliografica più ampia.
Le foto di copertina e quella nel corso dell'articolo sono due scatti di Luca Pizzolitto