"L'ombra come santuario della rivelazione": una nota su "Non come luce" di Isacco Turina
a cura di Pietro Romano
«Non come luce» (Terra d’ulivi, 2021) di Isacco Turina postula, nella poesia odierna, una questione forse poco discussa, e cioè se la parola debba riconciliare al flusso della Storia il detrito e lo scarto per dire del rimosso e del parziale: «sie schlief die Welt», scriverebbe Rilke, giacché è la fanciulla che, con il suo dormire, dà al mondo la forma del sonno. Turina affastella una sequela di immagini archetipiche che spiegano l’impossibilità della similitudine del titolo: la parola poetica è concepita come «scarto» che il poeta fa riaffiorare alla luce attraverso la percorrenza dell’ombra. È proprio nell’ombra la vitalità di tutte le figure allucinate che presiedono poi alla nostra interpretazione del mondo:
Dimmi il fiore che porti nello stomaco
che porti nella mente.
Fiore scuro di paura
fiore giallo dello sforzo
fiore bianco dell’attesa.
Dimmi l’insetto che ti ronza intorno l
a cicala che stride nell’orecchio
la sapienza del ragno che ti abita.
La forma che tu vedi è una follia:
sotto la giusta ombra intimamente
si muovono i giardini inconsapevoli.
La «zingara» è immagine simbolo di questa visione rivelatrice:
La séngala
El gh’avéa tólto ‘n pólpo de argento,
fato ben, ch’el paréa ch’el se moésse.
La so’ compagna, chela mora e séngala
l’era a casa malà da ‘n par de mesi.
Nel canton la pì granda dele fémene
la ridéa coi oci de ‘na strìa:
«En pólpo l’è ‘ndà a torghe! Envésse ela
la pensa al pesse gàto… L’ho ista
par strada l’altro dì.
L’è grossa che la paréa en nìolo co’ le gambe.
I séngali i fa tuto tanto ‘n prèssia».
Gh’è n’alga scura e lenta che se móe.
Quando che pióe le ombre a mezodì
se
scónde i pólpi e tute le creature.
La zingara: Le aveva preso un polipo d’argento / ben fatto, che sembrava si muovesse. / La sua compagna, quella mora e zingara / era a casa malata da due mesi. / Nell’angolo, la più grande delle femmine / rideva con gli occhi di una strega: / «Un polipo è andato a prenderle! Invece lei / pensa al pesce gatto… L’ho vista / per strada l’altro giorno. È grossa / che pareva una nuvola con le gambe. / Gli zingari fanno tutto tanto in fretta». / C’è un’alga scura e lenta che si muove. / Quando piovono le ombre a mezzogiorno / si nascondono i polipi e tutte le creature.
L’elemento luminoso mette in fuga «i polipi e tutte le creature»: è lo spazio a tutto il possibile che si dilegua per non farsi ricondurre alla sua nudità originaria. È la crudeltà del mistero che si nega agli uomini per rivelare loro il congedo della preghiera e della lontananza:
Da una bocca qualunque ascolteremo
la frase che ci annienta per bellezza
o crudeltà e porteremo sempre in noi
come una vecchia sentenza
che rilascia nel tempo la condanna.
Cibarsi d’ombre fino a quando
sia luce tutto intorno
è ancora il congedo più bello.
«Cibarsi
d’ombre» significa fare precipitare tutte le significazioni in un
profondo essere che le renda ovunque reali. L’ombra è in tal senso
il santuario della rivelazione, in quanto in essa ha
luogo ciò
che la luce discaccia o relega ai margini del linguaggio e
dell’espressione. Turina canta ciò che si rifugia nell’invisibile
e si schiude solo quando la parola non le fa divenire figurazioni di
un nesso, di un varco con il rimosso.
Per queste ragioni, in «Non come luce» si addensano molteplici
riferimenti attinenti a un’idea di origine: addentrarsi nel canto
implica il rischio del dissolvimento e la possibilità di riesumare
tutto quello che nella Storia non ha più rappresentazione:
1. Censimento
La storia è un’acqua ogni anno più sporca.
Dei molti che morirono stanotte
rimangono le immagini scattate
in un giorno qualunque.
Riassumi la tua vita in poche frasi.
«Ho preso ordini da un libro sacro.
Ora li prendo dalla mia automobile.
Quando ne ho voglia pago un’altra donna
per farmi sculacciare e insultare.
Non ho tempo di capire».
«Quando gli organi impazziscono
un uomo mi accompagna in ospedale,
mi descrive la luna nelle attese.
Splendida vita, dondolavi
dai rami e sapevi di bucato.
La mano di un estraneo ti ha raccolta».
La
cenere assurge a concreta figura della permanenza. Il suo grido
perdura nella Storia e attesta la sterilità del genere umano,
racchiuso in un circolo che porta sempre all’insondabilità del
morire:
8. Vigilia delle ceneri
In principio fu la cenere
perché qualcosa era già stato.
Il grido che dura nella cenere
ascoltiamo quando intorno è silenzio.
Pioggia di cenere ci sfama e ci disseta,
cade lenta sul velo della sposa.
Come un pasto di ceneri
godo il tuo corpo vivo.
Nell’aldilà c’è una lavanderia.
Prima di immergerlo strofinerò
il mio cuore di mango
su una pelle di fiore.
«Quando mi sarò spento, disperdete
i miei dati nel vento».
Ogni
figura generativa eredita il grido della cenere, nelle cui profondità
è celato ciò che invece la luce rifugge mantenendo così l’uomo
in uno stato di illusione:
4. Ricanto
Fratello Sole, perché mi pugnali?
Nel calore che aumenta bruciamo e anneghiamo.
Sorella Luna, il tuo sguardo è irritato:
i nostri piedi ti fanno il solletico?
Sopra un colle venivo a contemplarvi.
Ora vorrei nascondermi da voi.
Turina è dunque il cantore della cenere e dell’ombra, e cioè delle dimensioni in cui l’effimero ha davvero luogo e schiude al canto il mondo nelle sue verità primigenie.
Isacco
Turina è
nato a Villafranca di Verona nel 1976.
Vive a Firenze.
Ha pubblicato
il volume di poesie I
destini minori (Il
ponte del sale 2017) e la raccolta di racconti Elogio
delle merci (Coazinzola
press 2018).
La foto di copertina è uno scatto di Pietro Romano