Solo ciò che è breve conosce durata: una nota su "Canto alla durata" di Peter Handke
Il rapporto io-mondo si regge sulla necessità tutta umana di quantificare l’esistenza per relegarne ogni espressione entro specifiche categorie di pensiero. Il tempo è quel che sancisce il termine di un’esperienza infondendo nell’essere umano l’illusione di imbrigliare la realtà e controllarla. Invero, la vita stessa rifugge da ogni tentativo di padroneggiamento infrangendo ogni nostra geometria di senso. Con il poemetto epico-filosofico Gedicht an die Dauer (Canto alla durata) apparso nel 1986 e in Italia edito da Einaudi nella traduzione di Hans Kitzmuller, Peter Handke ci introduce all’interno di un canto arioso, centrato sull’urgenza di sondare il sentimento della durata. Quest’ultimo proviene dall’esterno riconoscendo le cose per loro stesse e ha matrice estetica, poiché implica il compiersi di un’esperienza di pensiero. Solamente innestandosi una corrispondenza tra istanze soggettive e oggettive, è possibile percepire la durata: essa può investire frammenti di realtà agli occhi dei più insignificanti ma carichi di un enorme valore estatico per il soggetto che li vive in tutta la loro pienezza. Per questo, la durata non è regolata da ritmi ciclici ma si presenta quando siamo nella condizione di avvertire il divenire del nostro essere.
Il poema inizia con un proposito:
È da tanto che voglio scrivere qualcosa sulla durata, / non un saggio, non un testo teatrale, non una storia-/ la durata induce alla poesia./ Voglio interrogarmi con un canto,/voglio ricordare con un canto, / dire e affidare a un canto/ cos’è la durata.
Vorrei avvicinarmi comunque/ all’essenza della durata,/ potervi accennare, parlarne nel modo giusto,/ farla vibrare,/ quell’essenza che ogni volta mi ridà slancio./ Eppure in un primo momento mi viene di intonare/ soltanto una litania fatta di singole parole:/ sorgente, prima neve, passeri, piantaggine,/albeggiare, imbrunire, benda sterile, accordo/ (…) Credo di capire/ che essa diventa possibile solo/ quando riesco/ a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,/ quando riesco a essere cauto,/ attento, lento,/ sempre del tutto presente a me stesso sino nelle punte delle dita.
Casuale ma intensa, la durata non è destinata a permanere in quanto condizione ma come sentimento. Ripercorrendo a ritroso la memoria, Handke riconosce che essa è possibile soltanto attraverso la fedeltà della presenza a noi stessi. L’effimero dentro il tempo sancisce e preserva l’esperienza della durata, la quale pertiene alla mortalità ed è a un tempo propria del bambino:
Durata si ha quando/ in un bambino/ che non è più un bambino/- e che forse è già un vecchio-/ritrovo gli occhi del bambino./ Durata non c’è nella pietra immortale,/ preistorica,/ ma dentro il tempo,/ nel morbido
La durevolezza è il requisito di ciò che cura e sana le ferite man mano che acquisiamo maggiore coscienza di noi stessi e del mondo:
La scossa della durata/ già di per sé intona un canto,/ dà un ritmo senza parole/ che,/ elemento scatenante,/ nelle mie vene fa battere il palpito di un epos/ in cui alla fine il bene trionferà./ Quando la durata vi impone le mani/ si chiude la ferita/ di cui mi accorgo/ solo quando si sta rimarginando.
Con quest’opera Handke si prefigge l’obiettivo di delineare al lettore l’urgenza di cavare dal fondo della solitudine un’esperienza del mondo più intensa, pregna di un enorme valore salvifico e riconoscibile nell’effimero: solamente quel che è breve conosce durata, poiché attitudine tutta umana è registrare l’esperienza in un flusso di cose distinguibili e cariche di senso.
La foto di copertina è uno scatto di Pietro Romano