Breviario dei luoghi infranti (VI) - dalla S alla U

 


a cura di Emiliano Cribari
foto in copertina di Emiliano Cribari


Tremano i paesi dellAppennino imboscato.

Tremano nomadi nellinverno di chi li ha trascurati.

Ognuna di queste parole è un sentiero per andare a trovarli.

In silenzio. Avvolti dalla quiete frondosa del mattino.

Ventuno parole che ci invitano a riflettere sul nostro Appennino.

Sullurgenza, etica e materica, di riposizionare gioia e tenerezza.

I paesi ci chiamano con una voce di carezza.



Silenzio


Chissà se gli uccelli si incantano (come facciamo noi con loro) ogni volta che ci sentono parlare, cantare, gridare, accendere e spremere motori. Siamo abbondanza di suoni. Reclutiamo il silenzio solo quando ci viene chiesto. Poi non pensiamo ad altro che a tornare a sciamare. Entrare in un paese è come entrare in un luogo divino, fare visita a un malato. Non esiste altra unità di misura che non sia il silenzio. Silenzio è rispetto, è ascolto, è dare veste nuova e congeniale allo stupore. Silenzio è tornare alla radice. Assumersi il peso netto dei luoghi. Introiettarli. Nei luoghi infranti dalla diaspora umana del secondo Novecento, silenzio è la parola d’ordine. Lo oltrepassano il vento e gli animali. È il primo passo da fare per lasciarsi appartenere.


Tenerezza


Nelle case abbandonate resta sempre qualcosa, fosse anche un chiodo appeso a un muro. Quel chiodo è stato testimone del tempo. Ha veduto, ha sentito, ha sorretto. I colori di una foto, i mesi di un calendario, finché un giorno è rimasto da solo, inchiodato al giorno e alla notte, alla ruggine, agli occhi migranti di chi l’ha guardato senza amore, senza tenerezza. Gli sarebbe bastato anche un sorriso, l’accenno di un sorriso. Tenerezza è dire grazie a ciò che resta. In questi luoghi chiamati minori, la tenerezza resuscita, conserva. Rilancia anche i ricordi che non sa, si inventa storie, incarna la forza e il coraggio. La tenerezza è cosa fisica, animale. Dà battaglia all’indolenza.


Urbanesimo


Digitando urbanesimo su Google, la prima definizione che esce è questa: “l’attrazione esercitata dalla città sulle popolazioni rurali”. Un’attrazione che nell’Italia dell’ultimo Novecento è stata sinonimo di ipnosi, di poderosa e funambolica e inarrestabile fuga verso un sogno chiamato benessere, riscatto da una vita insufficiente e misera. Ma chi sono stati gli ultimi a “chiudere” i paesi? Gli ultimi a partire, a desistere, a lasciarsi risucchiare? C’è chi li ha sognati, descritti, intervistati, tentando una ricostruzione storica e sentimentale, un’indagine antropologica su un processo migratorio spesso anche lento ma non per questo meno impattante e traumatico. L’Italia abbandonata è davanti a un bivio: fare o non fare, come e dove fare. Forse le grandi città hanno veramente smesso d’incantare. Hanno meno da offrire. Niccolò Fabi scrive: “allontanarsi è conoscersi”. Magari sì, allontanarsene, tornare a sparpagliarsi, iniziare da capo in un’altra dimensione, può anche essere la strada migliore da fare.


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