La tragica smisuratezza dell’effimero: una nota su "7 poemetti" di Franca Alaimo
a cura di Pietro Romano
Il processo artistico ricapitola in sé un passato percettivo che si comunica per mezzo di leggi estetiche tese a plasmare l’esperienza in forma. Questa operazione implica la necessità di favorire un’omogeneità tra natura e percezione al fine di scongiurare la disgregazione dell’esperienza estetica. Per questo, la poesia, per dispiegare modi di accedere al mondo talora inconsueti, vede ritmo e musicalità come strumenti utili a saldare l’esperienza che si intende restituire al lettore o di cui si desidera ampliare il quadro percettivo. Le soluzioni poetiche intraprese da Franca Alaimo, che ricordiamo essere anche pittrice, si sono fondate, nel corso di una produzione oramai trentennale, su scelte stilistiche adese, almeno agli esordi, all’utilizzo di una metrica classicheggiante e tradizionale (Impossibile luna, Il giglio verticale) per poi evolvere verso una versificazione piana, a tratti prosastica (Elogi, Traslochi, Alejandra es aquì), che tuttavia mantiene nell’endecasillabo il suo elemento propulsore. Giorgio Barberi Squarotti ebbe a scrivere di Alaimo in riferimento a Corpo musico:
«Folgorante è la novità improvvisa e straordinariamente inventiva della poesia di Franca Alaimo, che si crea un linguaggio giocosamente e appassionatamente scabro, bizzarro, saporosissimo, fra citazioni antiche e forme avventurose, neoformazioni linguistiche, sempre sorrette da un ritmo fervido, rapido, mosso. Visioni, emozioni, descrizioni di paesaggi e di stagioni, fremiti dell’anima, esperienze del sacro, dolori e conforti si susseguono con mirabile intensità. Contemplo l’alternanza del discorso da “Ascensione” a “Su tutte le soglie”, da “Il vignaiuolo” a “La fidanzata”; e ringrazio Franca che ci offre tanta altra bellezza e verità».
Se intendiamo la produzione di Alaimo un solo “corpo musico”, allora "7 poemetti" (InternoPoesia, 2022, prefazione di Giovanna Rosadini) figura come l’esito più alto di un percorsoartistico votato alla spiritualizzazione della parola, «nel segno di una circolarità che tutto lega e trasporta in un flusso senza tempo» (Rosadini). Uno degli elementi peculiari che ricorre in questa poesia è l’impiego delle parole come colori di una tavolozza cui attingere per rimandare al lettore una specifica esperienza del mondo. Questo dato è osservabile dall’uso particolare che Alaimo fa degli aggettivi, elementi attraverso cui ha luogo, durante la creazione poetica, un processo di frammentazione del visibile sino alle sue parti meno accessibili: il fine è rivelare i principi in base ai quali le cose diventano percepibili. E tuttavia, circoscrivere la scrittura di Alaimo a una semplice esperienza sensoria a un tempo non dà conto della sua matrice immaginifica e visionaria, che richiama alla mente Rilke, Tagore, Pizarnik:
«[…]vengono sempre gli dei se invocati,
talvolta sotto forma di animali miti,
che annusano con i musi umidi e pietosi
i pochi centimetri tra la gola e il coltello.
Oh, Isacco, Isacco, timore e tremore!
Vengono con le parole
di un angelo onirico
come testimoni di verginità.
Una volta – ricordo – Lui,
il ragazzo dell’amore mistico,
guidava un tram rosso fiammante
ed io ero una ragazza
sfatta di pioggia e di lacrime.
Lui mi chiede: dove stai andando?
Portami – gli dissi- in quel giardino
dove crescono more giganti.
E ci andammo davvero.
[…] O madre, nella tua lingua sconosciuta,
nella tua scomparsa gentile è il segreto:
amore della memoria,
ti ascolto mentre parli,
con la voce luccicante della pioggia
e mi aspergi con l’acqua del battesimo,
mio girasole sempre volto alla luce».

L’imago materna, spesso evocata nella poesia di Alaimo, assume evidenti connotazioni sacre e religiose, rese attraverso il suo prolungamento nello scenario naturale. La pioggia è un lavacro di parole luccicanti, che battezza alla luce l’io lirico, proteso verso la ricerca di un’origine entro cui anima e corpo vengano a coincidere. La morte e l’assenza sono parti di un disegno che la poesia può ricostruire senza però riuscire mai a decifrarne il mistero:
«[…] Dall’inizio del mondo occhi minuscoli
guardano i boschi
e raccontano ciò che sanno,
cantando la bellezza della luce.
Ogni morte è soltanto un minimo strappo,
un niente caduto in uno spazio largo.
Leggerissimo, paziente.
Come una foglia in un querceto fitto.
Ci sono altri nidi tra i rami.
E tuttavia ogni volta muore
la grazia del mondo e comincia la barbarie.
In tutte le guerre i corpi sono cose
votate al massacro:
a My Lai molti furono gettati
nell’acqua di un canale
dove si ripiegarono nudi
tingendola di sangue nudo
sotto una pioggia dura di proiettili.
Ma il tessuto della vita non cede,
si ricompone in mille fecondazioni:
altra vita, altro tempo, altri destini da compiere.
[…] Il fiore purpureo tra le gambe
fiotta desideri.
Cogli la rosa che volerà via.
Una ragazza, dopo la violenza,
fu finita dalla canna di un M16
infilata nella vagina
e così andò in frantumi la stanza fertile
che cullava le prime settimane di un bambino.
Cosa c’è di più sacro di un corpo offeso?
Cosa c’è di più umano di quel suo giacere
Disumanamente sconciato sulla terra?»
La vita viene al mondo pura come teca di cristallo. A sporcarla è poi la violenza degli uomini, dimentichi della bellezza dalla quale sono nati. La poeta ripercorre i drammi di un’umanità offesa, intrecciando la sequela di immagini che viene fuori con una riflessione più ampia, che ha radici nel nesso vita-morte:
«[…]nel mare immenso di galassie e stelle,
scrive il fisico Rovelli,
fra gli arabeschi infiniti di forme,
non siamo che un ghirigoro.
Un corpo testimone di labilità,
un’ostinazione d’essere
per chissà quale fedeltà
e vocazione alla vita nonostante
gli smottamenti fra le varie età,
che sorridono dalle foto
senza nessuna colpa d’essere ogni volta
qualcosa d’altro.
Ieri è morto Ignazio.
Domani, dopo la combustione, sarà
un pugno di cenere per il vento,
per il chiarore dell’acqua.
O corpo che eri vivo, sorridimi.
Parlami quando cammino»
La morte restituisce alla vita che si feconda secondo un disegno a noi imperscrutabile tutto ciò che esaurisce il suo corso. Essa è «un minimo strappo», dal quale si apprende che tutto accadrà di nuovo perché soggetto a una tramutazione continua e inesplicabile. Torna a tal proposito la valenza generativa della natura, che nella poesia di Alaimo ha sempre una significazione uterina. Vivere è quindi ripetersi, transitare tra uno stadio e l’altro, obbedendo ai cicli di nascita e morte che regolano l’universo. E tuttavia, quest’armonia è incrinata dalla presenza del dolore e del male, cui la poeta tenta un’attribuzione di senso, dovendo poi constatare che la parola poetica di fatto nulla può se non riscattare gli offesi attraverso il canto. Sorretta da una voce visionaria, Alaimo sonda i confini tra vita e morte e interroga coloro che sono approdati all’«altra riva» per loro stessa volontà.
«A braccia spalancate scende la notte.
Taccio.
Tacitamente stanno sullo scrittoio
Cumuli di libri aspettando che le parole
Siano raccolte come fiori
Da coltivare nell’acqua dell’anima.
Quanto grande è la notte che guarda
Con occhi stellati l’oblio dei dormienti!
E come brillano le stelle ormai spente,
per insegnarci che la morte
abita altrove e non muore:
l’amico dell’adolescenza
si forò la bella tempia
e l’altro ancora fanciullo
ciondolò dal lampadario,
e infine lei, la dolce,
stese il suo corpo tra le rotaie.
Io lo so che cosa li spinse all’altra riva.
Fu un immenso sogno,
un abbandono dei confini.
I loro cuori fragili fioriscono
Lungo i bordi della via Lattea,
le loro voci sussurrano come api che ronzano
fecondando la memoria,
come il mare dentro le conchiglie.
Tutto sogna quando cade:
i rami sull’erba, i nidi dai rami,
le piume dai nidi così leggere,
leggere più dell’aria.
Tutto sta in ascolto di qualcosa,
più lontano, che piange o che canta:
c’è sempre qualcosa o qualcuno
che piange o che canta
mentre se ne va»
Il suicidio è spinto a colmare la distanza da un’origine. È desiderio di trascendenza. È travalicare il visibile per rispondere al richiamo della leggerezza. Il sogno connette alle porte dell’altrove, come peraltro rappresentato in "Alejandra es aquì" (Editoriale dell'impossibile, 2010) dove Alaimo tenta, in chiave poetica, una corrispondenza epistolare con Alejandra Pizarnik, tra i massimi riferimenti della sua scrittura. Il dialogo con Pizarnik acquista una valenza onirica, inscrivendo il suicidio entro la rappresentazione di
una sensibilità assetata della parola antica, primordiale.
Il pensiero di Alaimo, in 7 poemetti, raggiunge così l’apice della propria tensione contemplativa, focalizzandosi su un elemento tematico cui si legava la prima produzione, ovvero la scrittura quale percorso di preparazione alla catarsi, alla purificazione, per riconnettersi alla bellezza. Esemplare è in tal senso Samādhi (Bastogi, 2000), dove il dato concreto, proprio per sollecitazione del soggetto contemplante, aspira a identificarsi con il proprio contenuto, accentuando, senza alcuna riserva, la spinta dell’io a divenire pura percezione.
È l’imitazione della natura nel suo farsi il denominatore comune di tutte le opere di Alaimo:
il canto si presta a un’indagine artistica mirata a intercettare la pienezza del reale attraverso la prassi percettiva e memoriale.
In 7 poemetti, mentre la prima sezione, quella contenente i sette poemetti da cui l’opera ricava il proprio titolo, registra, in modo mimetico e per mezzo di un dettato arioso e talora metaforico, i movimenti della natura al fine di far balzare sulla pagina persino l’elemento microscopico, la seconda, Frammenti, tenta, attraverso una sequenza di prose poetiche, di entrare nel cuore di ogni motivo ancestrale che da sempre scandisce l’esistenza umana.
L’impresa poetica si fa più ardua, il linguaggio criptico, le visioni dilatate e per questo meno definite:
Destino
Mi sarà data quella rara grazia, che rilucendo fuori dal suo centro, sappia saziare il tempo di me ignaro e vuoto fino alla luce della prossima fiaccola?
Anima
Lo stelo che regge la mia anima qua e là piagata.
Eden
Il mio cielo si è bucato, amica: guarda quanti strappi neri e misteriosi! Mi chiamano. Mi vogliono. Dicono che presto sarò altra da questa. Il varco è senza limiti, oscuro, e il mio corpo è un urlo muto. L’angelo si è distratto, mi slegherà le mani strapperà le ali. Non devi tremare, però, amica, se voglio addentare malvagiamente la polpa compatta della mela.
Riconoscerò il mio Eden trasgredendolo.
Nelle prose le visioni poetiche si raccolgono in frammenti. La frammentarietà priva la parola di precise coordinate spazio-temporali: i motivi tematici che vi si affastellano riflettono l’esigenza di un interrogarsi ulteriore, che riconosca nella notte e negli angeli figure del possibile e immagini del principio e del rovescio. Alaimo tenta di ricostruire, per frammenti, un’archeologia della voce: tutto il suo lavoro poetico è un tentativo di mimesi della natura, tale da condurre infine il lettore alla tragica smisuratezza dell’effimero.