"La fatica di dire tutto alle case" | nota su "Dire tutto alle case" di Thierry Metz
a cura di Pietro Romano
foto in copertina di Pietro Romano
«Dire tutto alle case» di Thierry Metz (Interno Poesia, 2021), nella traduzione di Mia Lecomte, raccoglie una scelta di poesie dalla silloge edita da Pierre Mainard mai pubblicate in volume e composte tra il 1978 e il 1997. L’idea della poesia come opera di manovalanza, cantiere a cielo aperto dove l’inchiostro suggerisce il nulla e a un tempo lo sforzo di «costruire e ricostruire» le fondamenta del linguaggio, esprime, con chiarezza abbacinante, la volontà poetica di perimetrare la spazialità del vuoto e il silenzio dei sedimenti riaffiorati dallo scavo tra le parole. Quella di Metz è una lingua metaforica, votata a risanare, sull’asse del tempo, la distanza tra la lingua e i suoi vuoti:
Vagavo tra losanghe Con tutti gli alfabeti della terra Nelle tasche E scrivevo sui muri Sui portoni Incollavo grandi lettere alitanti Come rospi Cifre color spiga Che suonavano la pietra con i tacchi Immane la fatica di dire tutto alle case Lo sforzo di estrarle dall’argilla.
«Lo sforzo di estrarre dall’argilla le case» accompagna il processo di recupero dei sedimenti della lingua e implica la difficoltà di colmare lo scarto tra il presente e il rimosso. L’immagine della «casa» come luogo archetipico di arduo accesso è declinata in una ricca gamma di varianti che danno conto dell’irredimibilità del concetto di origine:
Sentiero ignorato dall’esploratore: non vedere che avanti dietro l’orco nasconde le impronte non procede che a salti annulla il pasto. Dimora accerchiata. Di sotto aratori e fisici avvertono le felci.
Il testo diventa luogo di accumulo ed erosione dei significati che sono stati recuperati. E tuttavia, l’enigma che dà slancio all’operazione di scavo rimane insolubile e contenuto nella tensione poetica alla ricerca:
Impulso della sfinge animale prismatico. Tu sai – conoscendo l’enigma- che parlare del sole conduce al bagliore, alla notte chiarificata. Uomo che si fa chiudere in un faro: la tua poesia cela una lampada.
L’attitudine di Metz a depositare tra i versi immagini archetipiche suggerisce «un legame profondamente manuale» con la lingua: le parole, esatte, tornano al segno, scarnificate dall’«occhio sfinito della scrittura». Il poeta scava dentro di sé con la precisione di un manovale che deve stabilire nuovi perimetri, nuove misure. La luce è l’approdo ultimo di questo processo in fondo al quale ogni cosa convocata è volta per volta predetta da sé:
Qualcosa è stato raggiunto
non per superarlo
ma per raggiungerlo ancora –
semplice piccola rosa
dello sguardo.
Dove siamo
dove la rosa è detta
e con lei è sempre tutto da convocare
ciò che vuole ugualmente raggiungerci
continua ad avvicinarsi
puntato soltanto puntato
con questa parola.
C’è questo va-e-vieni di piccole cose
nessuno sa cos’è estraneo
nessuno sa cos’è familiare
perché dove una parola potrebbe dire
rimane sempre quello che predice.
Ricostruire la casa del linguaggio significa allora tornare alla casa dell’essere, dove ogni cosa è continua rivelazione e sprovvista di una terra da abitare:
Gli uccelli solitari
in me
non appartenere a nessuno
solo a un campo
nel lenzuolo
come una stretta
di mani
sotto le coperte
che mi impedisce
di legarmi alle rivelazioni
dell’erba
dell’officina dell’uccello
non sono più che giardino
meglio: riverso un fiume
di rosa che passo solo
e mi riporta.
Dove è terra in ciò che è detto?
Qualche albero
un po’ d’erba
Sono così lontano
da questa piccola voce che mi cerca?