Nel buio degli allevamenti da carne, la compassione della poesia di Teodora Mastrototaro
a cura di Mara Venuto
dipinto in copertina di Lovis Corinth, "Nel macello", 1893
<< legati i maiali vengono strappati con forza e portati fuori. / Gli operai li gettano sulla pila dei morti, tanto moriranno / prima o poi, con la stagione del freddo. >>.
“Legati i maiali” è un’opera poetica dolente, come si evince dai versi sopraccitati da cui prende il titolo, tratti dalla poesia che chiude la raccolta. Il crudo realismo che permea tutta la silloge non appare mai gratuito, così come è assente una vena destruente, si tratta al contrario di un’operazione di poetica militanza, una scelta di impegno funzionale al cambiamento sperato dalla poeta e drammaturga Teodora Mastrototaro, vegana e attivista per i diritti degli animali.
Sarebbe un errore, comunque, credere che la dimensione del contenuto sovrasti lo stile: la qualità della scrittura non soggiace mai al tema civile, come spesso accade nella poesia impegnata, quella della poeta pugliese è poesia pura al servizio di una lotta.
Nel corpus dell’opera “Legati i maiali”, pubblicata da Marco Saya Edizioni nel 2020, nella collana “Sottotraccia” diretta da Antonio Bux, si alternano le voci delle vittime animali (prima sezione) e di chi lavora nel mattatoio (seconda sezione): tali prospettive di vita si presentano divise nel libro e nella realtà, permane infatti un divario di ineluttabilità e di potere, restituito puntualmente dai versi. Senza dubbio, uno dei maggiori elementi di forza dell’opera è l’estrema vividezza con cui viene resa la vita negli allevamenti da carne e la macellazione, attraverso il ricorso a immagini tragiche, quasi sequenze documentaristiche di atroce realismo e dolore. I passaggi più cruenti, tuttavia, sono gestiti con abilità dall’autrice, ammantati di compassione, così che la discesa nell’inferno dei mattatoi non risulti mai impersonale, satura o arresa, caratterizzandosi invece per la lucida adesione alla verità, una scelta di lotta perché non sia possibile negare l’esistente e prendere le distanze da ciò che accade, in particolare negli allevamenti intensivi. L’effetto stordente e scuotente è raggiunto attraverso un espressionismo pittorico, i versi potenti ricordano delle pennellate materiche da cui emergono forme e visioni, carne, sangue, umori, emozioni conturbanti.
Anche il lavoro sul ritmo non è trascurato da Mastrototaro, tutti i versi sono sottesi da una musicalità incalzante, si coglie un richiamo alla tragedia incombente e ai cori del teatro classico: in entrambe le sezioni le voci interiori e le diverse percezioni degli attori si alternano alla narrazione concreta, alla descrizione del contesto e dei fatti. Le chiusure delle poesie sono spesso trancianti, a evocare lo sparo e il momento finale, la morte; i singoli componimenti sono tutti compiuti, definitivi, non c’è spazio, come è chiaro, per l’irrisolto e per un esito imprevisto.
Presentando questo lavoro di Teodora Mastrototaro non si può prescindere da “Macello” di Ivano Ferrari, non a caso citato dal curatore di collana, Antonio Bux, nella nota di introduzione al libro. Pubblicato nella bianca di Einaudi nel 2004, “Macello” parte dall’esperienza di lavoro e di vita di Ferrari all’interno di un mattatoio, con un approccio descrittivo di ciò che accade all’interno, in un’epoca in cui l’opinione pubblica, a differenza di oggi, ne era poco edotta. In “Macello” si coglie un’esaltazione dell’orrore compiuto meccanicamente e l’esposizione del potere umano nella mattanza animale, dai versi trascolora una (auto)denuncia, senza che lo scandalo o la presa di coscienza fossero gli obbiettivi del libro. “Legati i maiali”, invece, nasce dall’esperienza dell’attivista Mastrototaro con un intento primario di sensibilizzazione e denuncia dello status quo: dunque gli approcci sono differenti, anche se simili possono essere gli esiti. L’opera di Ferrari incarna uno stadio statico, l’osservazione di ciò che è; quello di Mastrototaro la fase della restituzione e della lotta. Un’altra sostanziale differenza è nella prospettiva, nel rovesciamento dell’Io poetante, nella sezione in cui sono gli animali a parlare; inoltre, se in Ferrari emerge una soggettività coinvolta nell’atroce, con una sommessa percezione di disagio, in Mastrototaro, invece, nella seconda sezione dedicata a chi lavora nel macello, affiora una distanza, una freddezza, che non è della parola poetica ma è frutto dell’abilità dell’autrice a rendere la distanza interiore che scaturisce di fronte all’orrore compiuto per dovere o per necessità. Nella prima sezione di “Legati i maiali”, per contro, nei componimenti in cui è data espressione al lamento delle madri animali, un’empatia viscerale, un’emozione “materna”, sgorga come sangue da una ferita aperta, grazie alla parola poetica densa, calda, ribollente. Una parola poetica lavorata dall’autrice con accuratezza, al fine di raggiungere un difficile bilanciamento emotivo: la materia non è lasciata andare, viene comunque controllata e contenuta, al fine di evitare il sovraccarico e il rigetto, in tal modo il fine dell’opera, ossia lo scuotimento delle coscienze in vista di un cambiamento, resta rispettato.
La speranza, come l’amore, impregna le pagine e riveste le vittime evocate da Mastrototaro, a cui la poesia restituisce valore, un valore finalmente non economico ma creaturale.
Prima sezione
Madre, non ho il permesso per le stagioni:
devo crepare in assenza di stelle, in assenza di sole.
Nella trappola la verità di un fiore tagliato mi meraviglia
la sua crudeltà: siamo orfani da quando siamo stati partoriti.
Madre, andrò a dormire senza invecchiare, senza avere armi,
senza leccare la neve se mai arriverà.
Madre che infliggi la vita, guardami.
Non piango più, ormai ci somigliamo.
*
Ti attendo all’estremità del mio stordimento,
vedi che cado e sei segregato nel tuo stesso sguardo.
Ti prolunghi verso i lombi fittamente a fasciare
il graffio che mi ostacola il corpo.
Tazze di sangue attizzano il fuoco,
mi conduci gli angoli della bocca
perché quando sorridi sanguino.
Improvviso una metafora tra la terra e la vita
lasciata a seccare sull’osso.
*
Io e il boia respiriamo nella
stessa direzione, dove soffia
il vento e un po’ più in là,
tra i miei bronchi all’imbrunire
e l’imbroglio del male
ogni volta che il boia decide
la proiezione della morte
un uccello incanta
in segno di dolore
il miracolo del
giorno.
In questa vita laterale al buio verticale.
C’è più inizio che fine su questo coltello.
Seconda sezione
Di Venerdì Santo non si macella.
Gli agnelli sostano ammassati
dove alla parete pende un cristo
coperto da un velo viola.
Tutti attendono tre giorni
prima di morire
per sempre.
*
A fine turno di lavoro lavo le mani
sotto l’acqua scrosciante del lavandino
nel gabinetto per gli operai macellatori.
Una volta asciutte tocco la vita in attesa
dell’alba. Nuovamente ricomincerà
il tramonto dei corpi.
All’alba il sole nasce per il mattatoio
e per il mattatoio all’imbrunire muore.
*
I movimenti ossessivi degli animali in attesa
sono sempre un enigma a cui trovare un senso.
Un segreto stanco che solo un morso calma.
*
Quando nevica e la neve muore
il vitello verso il mattatoio
solleva il muso e l’assapora.
Il fiocco si posa come cenere sulle spoglie
e si disperde.
Ha esordito con la raccolta “Afona del tuo nome” (La Vallisa, Bari 2009), tradotta dal poeta americano Jack Hirschman con il titolo “Can’t voice your name” (CC. Marimbo, Berkeley2010).
La sua ultima pubblicazione è “Legati i maiali” (Marco Saya, Milano 2020).
Il suo racconto “Il Mattatoio” è stato pubblicato sul “Magazine radicale internazionale Menelique” (Ass. menelique, Torino 2021).
Tra gli spettacoli: “A pelle è figlio di Apollo (Ciò che conta è la carne)”, “Le pareti di Antigone”, “Delirio registico”, “La seconda stanza”, “Alda - nell’intimità dei misteri del mondo”, “A Senza nome”, “Felicia – Frammenti di Felicia Impastato”, “Inumanimal”, “Femmina Lingua lunga - la storia di Rita Atria”.
È stata direttore artistico per sette anni del Festival di poesia “Notte di poesia al Dolmen”.