Dante: virtù e carità come riflesso del Vero (I parte)
1.
Conoscenza
e virtù: Beatrice come riflesso del vero.
Volti e figure umane si stagliano sullo sfondo luminoso del cielo della Luna come riflessi «per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille». In un primo momento, il poeta crede che quelle immagini appartengano ad anime poste alle sue spalle per poi, dopo essersi voltato, ricredersi e apprendere da Beatrice che sono «vere sustanze», ovvero anime realmente sussistenti e visibili parvenze.
Il terzo canto del Paradiso, come i precedenti, traduce in termini figurativi una realtà disincarnata e miracolosa, che neppure la parola poetica può esprimere globalmente se non descrivendola come un tripudio di luci e colori allusivi all'indicibilità di ciò che è collocato in una sfera di pura trascendenza, per quanto frutto di un processo altamente immaginativo. Limiti spazio-temporali validi a circoscrivere la visione immaginifica dell’io poetante sono aboliti a favore del nesso conoscenza/immaginazione, reso possibile dalla figura sempiterna di Beatrice. Quest’ultima è, per mezzo di una perifrasi dalla forte valenza metaforica, associata al sole, che, nell'immaginario medievale, rappresenta Dio e dunque l’apoteosi della luce e della conoscenza: «quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto,/ di bella verità m’avea scoverto,/ provando e riprovando, il dolce aspetto».
La figura femminile, che, nella concezione stilnovistica, è deputata al ruolo di mediatrice tra l’umano e il divino, è elevata, nel Paradiso, a una funzione più nobile, quella di consentire al poeta la conoscenza del «vero» e la virtù di carità che permea di sé il volere di Dio. E tuttavia, attingere alla sacra verità che governa l’universo implica per l’uomo Dante, chiamato a percorrere da vivo la dimensione ultraterrena del Paradiso, abbandonare tutte quelle posture morali e psicologiche che definivano la sua vita sulla Terra al fine di abbracciare la Verità. Egli deve prendere atto dinanzi a Beatrice di non sapere e dunque ammettere il proprio limite umano di fronte alla possibilità di intendere ciò che attiene alle disposizioni ultramondane.
Il carattere dottrinale delle parole della donna si manifesta attraverso il sorriso che le si dipinge in viso quando intuisce Dante al cospetto di ciò che non è in grado di spiegarsi a causa della sua limitatezza umana. Solo «provando e riprovando», con argomenti razionali ma non sempre totalmente accessibili alla comprensione umana, Beatrice può illuminare al poeta le vie attraverso le quali agisce il volere divino all'interno delle varie sfere celesti.
2.
I
beati
Le molte anime che si affastellano nel percorso di Dante verso Dio assolvono al compito non facile di dimostrare le acquisizioni che il poeta raccoglie di volta in volta nel suo cammino. Immagini di rarefatte e simboliche moralità, esse vengono sollecitate a recuperare le memorie della loro vicenda terrena per rendere conto del destino ultramondano che è stato loro assegnato.
I beati che si trovano collocati all'interno di questa sfera celeste sono le anime di coloro che in vita non hanno potuto adempiere ai loro voti sulla Terra. All'inizio il poeta li crede riflessi di anime che gli stanno alle spalle: «quali per vetri trasparenti e tersi,/ o ver per acque nitide e tranquille, non si profonde che i fondi sien persi,/ tornan d’i nostri visi le postille/ debili sì, che perla in bianca fronte/ non vien men forte a le nostre pupille» fino a che, voltatosi, non realizza che invero sono anime sussistenti, incastonate nello sfondo luminoso del cielo lunare.
Il rapporto tra conoscenza e oggetto della visione passa di necessità attraverso uno sforzo ermeneutico di non poco conto, che in un primo momento rischia di far cadere Dante «dentro a l’error contrario […] a quel ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte». Il rimando al mito di Narciso è svolto in termini antitetici: mentre Narciso, specchiandosi nel fonte, è indotto, per effetto di una punizione divina, a scambiare la sua immagine per un corpo reale innamorandosene, Dante, al contrario, è impedito dall'umana ragione a riconoscere la sussistenza delle anime che gli si pongono di fronte, credendole immagini riflesse.
La superbia è il vizio che accomuna il
poeta e il semidio offuscando loro la verità.
Tuttavia, mentre Dante cerca la redenzione riconoscendo la propria fallibilità,
Narciso resta ingabbiato nell'adorazione del proprio Sé, rinunciando così a
pensare l’alterità. Il vero dunque dimora nel mistero della finitezza e nella
spinta a superare il solipsismo della propria identità.
3.
Piccarda
Dante, rivolgendosi all'anima che gli sembra fra tutte la più desiderosa di parlare, le domanda di rivelargli il suo nome e la sua condizione.
È Piccarda Donati, figlia di Simone e sorella di Forese, il quale, nel XXIV canto del Purgatorio, ne aveva già prefigurato la condizione di beatitudine. L’anima, sollecita e con il volto sorridente, avanza, dichiarando come il loro spirito di carità non si neghi a nessuna preghiera sincera, proprio come quella divina che assimila a sé l’intera corte del Paradiso. Entrata da fanciulla a far parte del monastero delle clarisse in Firenze, ella ne fu tolta a forza da Corso e dagli altri fratelli e obbligata a sposare Rossellino della Tosa; secondo le fonti, segnata dalla violenza subìta, morì presto di crepacuore. Piccarda rievoca la sua storia con il tono pacato di chi intende allontanare da sé e dalla propria attuale condizione ogni forma di rancore o impurità; senonché, poco dopo, nel raccontarsi, è pur costretta a giudicare gli esecutori materiali della violenza che le è stata arrecata, definendoli «uomini a mal più ch’al ben usi».
L’allusione
perifrastica consente al personaggio di sfumare le memorie dolorose della vita
terrena, mettendone in risalto la propensione ad appagarsi in un totale
abbandono al volere divino. D’altro canto, il ricordo dell’offesa mondana non
può inquinare la purezza della condizione spirituale di Piccarda: il dolore
patito in vita è relegato in uno spazio remoto e avulso dalla beatitudine
eterna cui la donna è stata destinata.
4.
Relazione
tra meriti e beatitudine
Ciononostante, la ragione non può da sola intuire ciò che si staglia al di là di essa e Dante rimane pur sempre un uomo condizionato dai limiti della vita terrena: egli domanda se i beati in questo cielo siano paghi della loro condizione e se non abbiano mai desiderato di essere posti più in alto per contemplare Dio da più vicino.
Il dubbio investe il concetto di compiutezza e perfezione dello stato di beatitudine: sulla terra la coscienza di una diseguaglianza insinua, se non l’invidia, il desiderio di una condizione migliore.
Piccarda, sorridendo assieme alle altre anime, spiega che invero la carità divina appaga totalmente, facendo desiderare alle anime solo ciò che hanno e null’altro. Se desiderassero altrimenti, le anime finirebbero con l’essere discordi con il decreto divino. La beatitudine, pertanto, consiste nell'adeguamento al decreto divino: la carità, che induce obbedienza e sollecitudine nei confronti del bene altrui, appaga totalmente la volontà delle anime, effondendosi in ogni cielo in egual misura. D'altronde, «ell’è quel mare al qual tutto si move/ ciò ch’ella cria o che natura face».
Dio, primo motore immobile, è il mare verso cui tendono tutti gli esseri da lui creati o generati dalla natura: nella sua pace le singole volontà si acquietano, placando ogni tensione. Nei versi «chiaro mi fu allor come ogne dove/in cielo è paradiso, etsi la grazia/ del sommo ben d’un modo non vi piove», echeggia la lezione di Tommaso: «Diversi modi consequendi finem ultimum diversae mansiones dicuntur; ut sic unitas domus respondeat unitati beatitudinis, quae est ex parte obiecti, et pluralitas mansionum respondeat differentiae, quae in beatitudine invenitur ex parte beatorum [i diversi modi di conseguire il fine supremo possono dirsi diverse stanze; così che l’unità della casa corrisponda all'unità della beatitudine, dalla parte dell’oggetto, e la pluralità delle stanze corrisponda alla differenza nel modo di fruire della beatitudine dalla parte dei beati][1].
Le anime sono distribuite
nel Paradiso a seconda del grado di beatitudine che è stato destinato loro. La
pluralità in cui si riflette la parvenza di un ordine gerarchico tra i diversi
cieli corrisponde al carattere unitario del disegno divino.