Dante: virtù e carità come riflesso del Vero (II parte)
1.
La
carità e la volontà
L’arbitrio
di combattere il male e di rivolgersi a un fine buono determina nella creatura
l’inclinazione a scegliere il migliore fra i beni che le si propongono. In tale
tensione è possibile ravvisare una stretta compenetrazione tra amore e libero
arbitrio: la creatura che apprende a desiderare il vero apprende anche la
capacità di riscattarsi dalla sofferenza terrena, non desiderando per sé
null’altro che la piena armonia con Dio. Marco Lombardo, nel XVI canto del
Purgatorio, spiega: «Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti; ma,
posto ch’i ‘l dica, /lume v’è dato a bene e malizia, / e libero voler; che, se
fatica/ ne le prime battaglie col cielo dura, / poi vince tutto, se ben si
notrica. / A maggior forza e a miglior natura/ liberi soggiacete; e quella
cria/ la mente in voi, ch’è il ciel non ha in sua cura. / Però, se ‘l mondo
presente disvia, / in voi è la cagione, in voi si cheggia; / e io te ne sarò or
vera spia./ Esce di mano a lui che la vagheggia/ prima che sia, a guisa di
fanciulla / che pianghendo e ridendo pargoleggia/ l’anima semplicetta che sa
nulla, /salvo che, mossa da lieto fattore,/ volontier torna a ciò che la
trastulla». I primi movimenti dell’animo umano, sebbene non tutti, sono
determinati dall’influsso dei cieli e, quand’anche non fosse così, l’uomo è
fornito del lume della ragione che gli consente di disciplinare gli impulsi e
distinguere il bene dal male. La volontà appartiene all’anima razionale, come
suggerisce Tommaso: «Voluntas enim in parte intellectiva animae est»[1].
2.
Il
tema della luce e del canto
Le
anime del Paradiso rilucono della loro beatitudine. L’ineffabilità della
visione limita la possibilità della parola di restituire globalmente l’oggetto
contemplato: Dante, per conferire vivezza alle essenze spirituali che incontra
durante il suo cammino, declina, variandolo, il tema della luce che si
rinfrange in esse. È significativo che l’apparire e lo scomparire di queste
labili forme all’inizio produca nel poeta l’impressione che si tratti di
immagini riflesse e non già di anime reali. Nella Commedia la luce coincide con lo sforzo immenso di elevarsi alla
conoscenza e contro le comuni leggi umane, sforzo che può essere reso soltanto
attraverso un linguaggio allusivo e simbolico. I beati rilucono dello splendore
di Dio che, appagando ogni loro desiderio, le salda con sé alla Verità: «Però
parla con esse e odi e credi;/ ché la verace luce che li appaga/ da sé non
lascia lor torcer li piedi». L’anima di Piccarda, che si leva a parlare con
Dante, risplende dei raggi della vita eterna: «O ben creato spirito, che a’rai/
di vita etterna la dolcezza senti/ che, non gustata, non s’intende mai […]». La
luce si identifica con l’armonia divina e la purità primigenia che promana dal
suo volere. Essa soddisfa nelle anime la tensione al desiderio che invece
strugge i mortali e risulta motivo di contraddizione terrena. L’imperatrice
Costanza, che, come Piccarda, fu suora e poi costretta a lasciare il chiostro
perché data in sposa a Enrico di Svevia, aleggia evanescente nella luce in cui
sono sospese le anime di tutti gli altri beati. Anche per lei la luce divina è
porto sicuro dov’è placata ogni tempesta mondana: « E quest’altro splendor che
ti si mostra/ da la mia destra parte e che s’accende/ di tutto il lume de la
spera nostra,/ ciò ch’io dico di me, di sé intende:/ sorella fu, e così le fu
tolta/ di capo l’ombra de le sacre bende./ Ma poi che pur al mondo fu rivolta/
contra suo grado e contra buona usanza,/ non fu dal vel del cor già mai disciolta».
Simbolica risulta finanche la conclusione del canto: quando ormai la vista non
regge più alla
visione delle anime che si allontanano scortate da Piccarda intenta a cantare l’Ave Maria, Dante si volge verso
Beatrice, ai suoi occhi simbolo di conoscenza e imago del Vero. Laddove, nel
Paradiso, il poeta si senta smarrito nell’ineffabilità della visione, la donna
figura come destinataria del suo più intenso desiderio, rifulgere di quella
luce che è oasi di pace da ogni turbamento terreno.
[1] Tommaso, Contra Gentium, III, 85