Giovanni Ibello: Amin e l'inattingibile della visione


       A cura di Pietro Romano
Fotografia di copertina di Pietro Romano


1. «La risacca ci insegna il solo rito possibile: lo smisurato addio»


Il tempo del dire poetico come mai più per risalire all’inattingibile della visione. Echi ancestrali, minacciosi presagi, ripetizioni e lontananze: il carattere irredimibile della lingua poetica di Giovanni Ibello, «il più antico dei giovani poeti», si raffigura nella costante presenza, in Dialoghi con Amin (Crocetti, 2022, pref. di Milo De Angelis), di figure presaghe di caduta e imminenza. Le coordinate spazio-tempo si traducono, all’interno dell’opera, in uno scenario dominato dalle leggi dell’eterna ripetizione: in tutta la poesia di Ibello agisce uno scisma irreparabile dall’universo e dalle norme che lo regolano. L’io lirico è frammentato, diviso tra la grammatica del crollo e l’incanto della sparizione. L’esistenza è «ripetizione mitica», cristallizzata entro formule cosmiche che solo la magia verbale e metaforica del canto può rievocare. La poesia assume dunque la funzione rituale di richiamare dall’abisso della caduta ombre e luci di un altrove che si annuncia nell’addio. È nella cancellazione l’apice del quasibuio che modula possibili forme di significazione, al limite tra l’oscuro del linguaggio e la chiarità delle penombre. Ogni cosa si elide in sé stessa per tornare a ripetersi come mimesi della morte. L’atto poetico oscilla fra desiderio e mancanza, impossibilitato a esaurire l’addio che lo precede. L’addio è il «prima» che si sottrae al linguaggio e alle forze stesse del poeta-sacerdote che vorrebbe rievocarlo: è l’indicibile che anima «il teatro spaziale delle ombre» e confonde il sonno con la veglia: «di quello che sognavi veramente/ non resta che un silenzio siderale/ una lenta recessione delle stelle/ in pozzanghere e filamenti d’oro. / E il riverbero delle sirene accese/ sui muri crepati delle case. / Così dormi, non vedi e manchi/ il teatro spaziale delle ombre. / Il desiderio è l’ultimo discanto. / Ma quanti gatti si amano di notte/ mentre l’acqua scanala nelle fogne».


2.   «Chi di noi due ha partorito l’altro?»


Il destino del poeta è la solitudine di fronte alla desolazione che si accompagna all’atto della parola. La poesia si erge sul lettore come simulacro della mancanza: essa denuncia la primordiale rottura dell’unità, invocando a sé un repertorio lessicale e figurativo orbitante attorno a motivi archetipici. Molte sono le figure archetipiche che si affastellano all’interno dell’opera, alcune delle quali rese per mezzo di espressioni metaforiche: «Mesopotamia dell’invisibile», «ectoplasma del divenire», «cifrario di dio», «rinoceronte nero», «grembo della cancellazione», «lesione tellurica del buio», «utero incendi, ». Tali immagini, nella loro terribilità, sfidano l’oscuro del linguaggio per sconfinare nella «lacerazione», obiettivo ultimo del poeta-sacerdote. Non casualmente, in epigrafe alla parte seconda, Teorema dei roghi, Ibello rievoca la voce di Cristina Campo: «di ogni parola inutile ci verrà chiesto conto». La parola poetica di per sé origina da una ferita alle radici che il poeta-sacerdote cerca di sanare nel canto. Tuttavia, la tensione verso l’origine è indissolubile e procede per sottrazione: il poeta deve ridurre al minimo le parole, sfiorare l’assoluto del nulla, misurarsi con «il rinoceronte nero». Una profonda antinomia destinata a non essere mai del tutto risolta è alla radice del titanismo di Ibello: se da un lato il poeta è votato all’elevazione di sé, quest’ultima risulta poi impossibile, incrinata dalla coscienza di essere al mondo senza ragione e costretto all’ubbidienza a norme cosmiche che si esprimono tramite le leggi dell’addio e della ripetizione. I versi di Adonis che aprono la raccolta segnano uno smacco interrogativo di fronte all’assurdità dell’esistenza e dei suoi cicli: «l’universo tutt’uno con me/le mie palpebre chiudono le sue/ l’Universo alla mia libertà fuso, / chi di noi due ha partorito l’altro». Il poeta dichiara guerra al cosmo e alle sue leggi: «Dichiaro guerra all’incendio. / Dichiaro guerra al tuono vicino, / ai fuochi di novembre, / al sole infartuato/ di ogni alba autunnale. Dichiaro guerra / al partenone mare/ all’acqua stellata, / ai viluppi di salino: / a te che dici/ io sono vivo, io sono vivo…».


3.   «Dichiaro guerra all’incendio…»


Le sezioni si svolgono secondo una climax ascendente: la prima, Yucatan, introduce il lettore all’interno di uno scenario popolato da forze arcaiche e nefaste, cui si contrappongono altre estatiche, legate all’eros. Yucatan eleva il disamore del poeta a universale: mappa l’oscurità della creazione che ha condannato tutte le cose a una caduta eterna. Risulta interessante constatare come l’eros venga presentato non solo quale forza creatrice, ma anche tiranna nella spinta ad assolvere alle proprie istanze generatrici ed eternamente cicliche. Come osservato da De Angelis in prefazione, molti sono i riferimenti letterari ravvisabili in Ibello, da Adonis a Giorgos Seferis, da Leopoldo Maria Panero a Dylan Thomas, da Cristina Campo ad Alessandro Ceni, «[…] invisibili fratelli di sangue, alleati in una comune avventura e in un comune viaggio nel fiume della natura, nelle sue correnti segrete e animistiche». L’unico modo per sottrarsi alla ciclicità della ripetizione è giungere alla «lacerazione», non tornare più. La seconda sezione, Teorema dei roghi, fa del fuoco e di tutte le sue declinazioni figurative l’emblema di questa concezione. Il fuoco è metafigura attinente a un’idea di origine: «succhiamo avidamente/ il fuoco rimasto nelle pietre», «dichiaro guerra all’incendio/ […] ai fuochi di novembre/ al sole infartuato[…]». Esso presiede alla metamorfosi delle cose perché contiene il nulla e i suoi contrari. Nondimeno, viene, in Dialoghi con Amin, appare spesso devitalizzato, come se lungo l’asse del tempo avesse in parte esaurito la propria carica generatrice. D’altronde, è forse nella volontà di riconciliarsi all’origine e così rimediare alla perdita che pare risiedere il senso della poesia di Ibello: «torno allo stato embrionale della vita/ nel sonno ibrido del feto/ dove un diagramma di materia nuova/ riproduce fedelmente/ il calco delle ossa/ la nomenclatura delle vene/ e un incavo d’ali nelle scapole/ Questa è la divinazione dei corpi». Questa metafisica del buio risponde, sul piano dello stile, al bisogno di rovesciare il movimento che porta dal silenzio alla parola, dall’informe alla forma. Il lessico figurativo è per questo denso di «figure totemiche», dotate di una forza simbolica che attribuisca consistenza al disfacimento, come «il rinoceronte nero» o «le antilopi erranti». D’altronde, la sorte cui l’amore destina ciascuna creatura è la sparizione: «l’amore stringe nel seno/ la sorte del tuono». Ma lo svanire è dal poeta percepito come possibilità di tornare a «quel nulla che siamo già stati», o meglio «allo stato embrionale della vita», oppure di battezzare alla purità della neve: «forse è una cosa povera di vita/l’orma della lince che battezza la neve».


4.   Amin, Giovanni, Diego Maradona


Nella terza sezione, Be aware of God, campeggia la figura di Diego Maradona, incarnazione di quel mai più che è compimento. Monolitico, cristallizzato in uno spazio-tempo inaccessibile persino alle parole, Maradona è l’altra anima di Ibello, quella tellurica: non casualmente, «yo sé la culpa que tengo» sono le parole che egli incide nella ripetizione e che si diffondono dalla «sorgente dell’ultimo vedere». Per Giovanni scrivere è «ammettere la colpa». Ibello dichiara guerra al cosmo, ma è pur sempre agitato dal bisogno di riconoscersi in quest’ultimo. Il poeta non ha chiesto di nascere né d’essere amato («avrei perdonato mia madre/ se non fossi nato per amore»): per questo l’ossessione della parola è vissuta come una colpa ancestrale della quale liberarsi, perché essa relega alla terra e non basta mai a soddisfare la perdita dell’origine: «se vuoi arrivare alla lacerazione/ non dire una parola/ che sia una». Amin è invece una figura liminare, al confine tra la veglia e il sogno: «io sono Amin, / colui che restò nel noncanto./ La pietraluna che stringe/intime alleanze con il temporale. Sono la vita sognata, / la spada rivolta alle piogge. / Baratri e gemme, /rovesci, sterpi, / acqua di sperma creatore. / Io sono Amin/ e non ho mai conosciuto l’amore. /Rivelo la sintassi del crollo/ un urlo angelicato, non si muore/Vita sempre sognata, mai vita». Egli è il sacerdote del canto, colui che è chiamato a vegliare la parola per demistificare le illusioni dell’esistenza come da una cattedrale in mezzo al deserto. La sua «solitudine carceraria» si esplica nella volontà di contrapporsi ai meccanismi dell’universo e nel contempo di evocare l’incanto segreto che le cose sono ancora in grado di custodire. Amin è una figura siderale, che precede l’anima di Ibello e parla da secoli di silenzio per annunciare l’imminenza, lo smacco dell’uomo di fronte alle cose. È la voce di Giovanni che riecheggia in un profondo essere, in attesa che il corpo torni «seme».

 

Pietro Romano

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