La lingua degli uccelli (I) - Il passero solitario e gli uccelli cantatori
rubrica a cura di Alfredo Rienzi
dipinto in copertina: Autore Ignoto, tecnica mista (Alfredo Rienzi, collezione privata)
Secondo Genesi 1:21-22, «Dio creò […] ogni volatile secondo la sua specie», li benedisse e disse: «si moltiplichino sulla terra». Avvenne nel Quinto giorno. Nel Sesto giorno apparve l’uomo, «maschio e femmina» (Genesi 1:26-27). In questo caso scritture sacre e conoscenze scientifiche, nel senso postgalileiano, concordano: l’Archaeopteryx, il piccolo dinosauro piumato atto al volo, creduto fino a non molti anni fa il più antico progenitore degli uccelli moderni, sarebbe vissuto nel Giurassico superiore, attorno ai 150 milioni di anni fa. Per farla breve: gli uccelli popolano la Terra da molto prima dell’uomo, da molti milioni d’anni.
I primi occhi umani poterono assistere fin da subito al prodigio delle creature volanti.
Indipendentemente dalla presenza di caratteristiche persino più comuni e definitorie (becchi senza denti, ali, quattro arti, piume ecc) è il volo, indubbiamente, la proprietà che più deve aver colpito, affascinato, ispirato l’uomo nei tempi, compresi quelli moderni. Il potersi sollevare dalla terra e salire al cielo ha determinato, in molte tradizioni e culture, la suggestione di una maggior vicinanza alle regioni celesti, intese in senso mitologico e spirituale. Quasi un rango di divinità o, quantomeno, di messaggeri degli dei. Basti pensare, per una minima campionatura, all’avifauna simbolica egizia (avvoltoio, ibis, falco ecc), a quella cristiana (pellicano, colomba, pavone ecc), a quella amerindia o di ispirazione sciamanica (aquila, falco).
Così il rendersi manifesti degli uccelli con forme, comportamenti e manifestazioni canore ha generato miriadi tra credenze, specifiche attribuzioni e simbolismi.
Il linguaggio degli uccelli, titolo che ho scelto per questa serie di articoli sulla presenza e sul significato degli uccelli nella poesia - limitandomi per non ampliare a dismisura il campo di indagine - a quella italiana moderna e contemporanea, attinge da un’altra delle proprietà più coinvolgenti (derogo con quest’aggettivo al tono neutro di quanto fin qui descritto) degli uccelli: il canto.
Per inquadrare con chiarezza alcuni aspetti, leggiamo direttamente (inutile e peggiorativo in certi passaggi non farlo) alcune tracce dall’insuperato Simboli della Scienza Sacra di René Guenon:
«Si parla spesso, in varie tradizioni, di un linguaggio misterioso chiamato “lingua degli uccelli”: designazione evidentemente simbolica» e «prerogativa di un’alta iniziazione». Si legge nel Corano (XXVII, 15) che Salomone disse: “O uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli e colmati di ogni cosa”. «Altrove – continua Guenon - si vedono eroi vincitori del drago, come Sigfrido nella leggenda nordica, comprendere subito dopo il linguaggio degli uccelli» che simboleggia la «comunicazione con gli stati superiori dell’essere», acquisita dopo la vittoria sulle forze infere, rappresentate dal drago e, più familiarmente, dal serpente. Non lontano da questi significati si realizza talora un’equivalenza simbolica tra uccelli e le egualmente alate gerarchie Angeliche. Infatti nel Corano (XXXVII, 1-3) il termine “eç-çaffat” designa letteralmente gli uccelli, ma si applica simbolicamente agli angeli (el malaikah); «Gli auspici (da “aves spicere”, “osservare gli uccelli”), presagi tratti dal volo e dal canto degli uccelli, sono in special modo da accostare alla “lingua degli uccelli”, intesa allora nel senso più materiale, ma comunque identificata ancora con la “lingua degli dèi” […] Gli uccelli svolgevano così una funzione di “messaggeri” analoga a quella generalmente attribuita agli angeli.»
Ancor prima, in quell'intrico di versioni e loro varianti che è la mitologia greca, Apollodoro narra che l’indovino Melampo derivasse la sua qualità divinatoria dalla capacità di intendere il linguaggio degli uccelli e di altri animali, e nel mito di Tiresia, che Atena fece purificare da serpente Erittonio le orecchie del veggente cieco affinché egli potesse intendere il linguaggio profetico degli uccelli. Un altro esempio ci giunge anche dal celebre episodio della predica agli uccelli di San Francesco d’Assisi, narrato nella Vita prima di san Francesco d’Assisi, di Tommaso da Celano (cap. XXI). Pur considerandone l’essenza allegorica, questi racconti indicano la comprensione della lingua degli uccelli come conquista della lingua della Natura e della possibilità di comunicare con essa.
Il canto degli uccelli e gli uccelli cantatori. Il passero solitario.
Più semplicemente e “realisticamente” nella poesia italiana il linguaggio degli uccelli consiste, come ho su accennato, nel canto. Con questo lemma, preciso ed ampio al tempo stesso, i poeti di tutto il mondo e di tutte le epoche, hanno inteso soprattutto alludere o rinviare a quell'offerta di una melodia naturale, di voci pure e libere, espanse tra paesaggi arcadici, impressioni neoromantiche e variegati metaforismi. Chiarendo: anche ornitologicamente è effettiva la distinzione tra versi (si pensi a quelli dei corvidi, degli anatidi, dei rapaci) e “canto”. Perfino la tassonomia dell’Ordine ci mostra come questa proprietà sia non ubiqua, ma appannaggio degli “uccelli canori” o Oscini, sottordine dei Passeriformi e gruppo più numeroso, pari a circa la metà di tutte le specie aviarie esistenti. Va ancora precisato che “uccelli canori” non è sinonimo di “uccelli cantatori”, che sono quelli che qui ci interessano. Infatti gli uccelli canori comprendono alcuni tra i migliori cantatori, come per esempio i merli e gli usignoli, ma vi sono famiglie, come i corvidi, che posseggono invece richiami duri e meno gradevoli, come le rondini che non sono certo apprezzate e narrate per il loro canto o, perfino, come le cicogne, mute, senza né canto né verso e che comunicano con i suoni emessi battendo il becco velocemente.
Cominciando ad affacciarsi sul repertorio poetico, tra i più noti e citati uccelli cantatori possiamo annoverare il tordo e il merlo, la capinera, l’allodola, l’usignolo - il re dei cantori - e i suoi familiari pettirosso e passero solitario. Con i versi, celebri, dedicati a quest’ultimo, chiuderò questo primo articolo, che certo non esaurirà la ricognizione sul canto degli uccelli nella poesia italiana. E che anzi ne resta quasi una semplice premessa, considerato che ci allunghiamo fino a circa due secoli fa.
In seguito si vedrà quante altre presenze aviarie potranno essere ritrovate, tra i versi dei poeti, e per quali diversificati aspetti simbolici e metaforici o anche solo descrittivi.
In realtà, nella parafrasi della celebre Il passero solitario, la metafora dominante è, giustamente, quella della solitudine, nel confronto tra la condizione naturale del passeriforme quella sofferta e consapevole del poeta.
Fatta la necessaria chiarezza sull'identità del “passero” , (“solitario” non per mera aggettivazione libera, ma perché è nome proprio della specie: Monticola solitarius), cosa ascolta il recanatese, stando ai versi dell’XI dei suoi Canti?
Poco con i sensi, moltissimo attraverso il pensiero e la riflessione, come a dire che più che ascoltare il canto del passero, in ogni caso formidabile cantatore, Leopardi ne osserva il comportamento e l’indole.
Infatti ci dice che il canto dell’uccello spande «armonia», ma qui siamo poco oltre la sinonimia, però viene a confermarsi quanta tensione emotiva il canto possa attivare nel poeta.
Il famosissimo incipit descrive con fulminea correttezza l’habitat del volatile, che ancor prima del massiccio fenomeno dell’inurbamento degli uccelli, di solito nidificava all’interno cavità rocciose, anfratti naturali, muri di vecchi edifici e ruderi situati nelle periferie delle città, in cimiteri, castelli, chiese, case disabitate e monumenti e mai, tuttavia, su alberi.
Oltre alla Monticola «altri augelli» occupano scena e cieli, ma all’opposto del solitario, Leopardi con studiata ingenuità li definisce «contenti», nel loro mulinare in cielo. «Libero ciel» precisa, con aggettivo che si estende agli stessi uccelli. La libertà è, infatti, un’altra delle grandi metafore del volo. Ma qui entreremmo nel regno dei gabbiani e di altri grandi volatori.
Il passero solitario
D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera d’intorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sí ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e così trapassi
dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia,
e te, german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito, e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno, ch’omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne,
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventù del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io, solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo; e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fère il sol, che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vòto il mondo, e il dí futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi! pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
All'interno dell'articolo, vengono citati:
René Guenon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, 1990, pp. 56-58;
La vita prima di san Francesco d'Assisi di Tommaso da Celano.
All'inizio Roma riserva scarsa attenzione ai sermoni di Francesco e il frate reagisce alla fredda accoglienza recandosi fuori le mura a predicare non ai passeri e ai piccioni, ma a rapaci intenti a divorare carcasse nei campi e attirati dai suoi sermoni. Così narra Ruggero di Wendover, monaco dell’abbazia benedettina di St. Albans, morto nel 1236, che avrebbe precisato che la cosa si ripeté per tre giorni e i romani, stupiti dalle prodigiose prediche, si pentirono e prestarono attenzione alle parole di frate Francesco.
Il passero solitario.
La poesia Il passero solitario, si ritiene scritta nel 1829-1830 ed è l’XI dei Canti della prima stesura, quella edita dall'editore Saverio Starita, che Leopardi stesso curò nel 1835.
Si noti bene: il passero solitario o passera solitaria, (Monticola solitarius), pur essendo un rappresentante della grande ordine di Passeriformi, è un membro della famiglia dei Muscicapidi, in passato inserito in quella Turdidi (tordi, merli ecc). Si tratta di un elegante uccello di taglia medio-piccola più simile a un merlo e di un bel colorito, nel maschio, blu cobalto con le ali nere.