Il linguaggio degli uccelli (II) - L’allodola è la Poesia (con versi di Antonia Pozzi e Giuseppe Ungaretti)
rubrica a cura di Alfredo Rienzi
immagine in copertina "L'allodola nel campo di grano" di Vincent van Gogh, 1889 (dettaglio)
C’è una presenza aviaria nella poesia che si è fatta essa stessa simbolo di poesia. È l’allodola (Alauda arvensis), passeriforme del sottogruppo degli Oscini, i “passeri canori”. Un po’ più grande di un passero domestico, l’allodola è caratterizzata da un piccolo ciuffo erettile, che mostra in situazioni d’allarme.
Ciò che la rende simbolicamente così feconda è non una sola caratteristica, ma la contemperanza di più peculiarità: il volo particolare, il canto, gli orari e le stagionalità del suo apparire, perfino il succitato ciuffo, che la renderebbe simile ad un sole “crestato” dai suoi raggi.
Il comportamento in volo ha sempre colpito gli osservatori: l’alauda è un uccello terricolo, che nidifica sul terreno, spesso nelle aree cerealicole o nei prati ad erba alta. Da lì s’innalza con volo quasi verticale anche oltre i cento metri, mentre emette un canto melodioso, per poi quasi rituffarsi verso terra con ali chiuse, che riapre solo a poca distanza dal suolo, per poi nuovamente risalire e cantare. Nei “voli nuziali”, durante il suo saliscendi aereo, il maschio può cantare ininterrottamente per svariati minuti. Rilevante è il fatto che il canto (“trillo”) si ode soprattutto ai primi chiarori del giorno («messaggera dell’alba» dirà il Romeo shakespeariano) (1), al sorgere del sole e alle prime avvisaglie di primavera.
La scena del volo ascensionale, accompagnato dal canto, delle discese verticali, dell’attitudine per la luce dell’alba e per la stagione di rinnovamento dell’anno, l’hanno fatta identificare già dall’antichità quale messaggera degli dèi, capace di unire terra e cielo, l’umano al divino, di elevarla a simbolo dell’immortalità dell’anima e, nel Medioevo, di farne emblema cristico e immagine simbolica dell’Ascensione o della Resurrezione, o ancora del monaco predicatore che «sale sul pulpito [e] sparge dall’alto sui fedeli le parole di fede». (2)
Di fronte a tale pregnanza simbolica, non potevano certo scrittori e poeti restare indifferenti, già dai tempi di Plutarco (3) che, attribuendo alle allodole il merito di avere evitato a Lemno le devastazioni delle locuste, cibandosi delle loro uova, ne ha fecondato il carattere di uccello benefico e beneaugurante.
Già abbiamo citato il passaggio in Romeo and Juliet di Shakespeare, ma i versi forse più noti – e sicuramente più emblematici - sono quelli dell’Ode ad una allodola (To a Skylark) di Shelley: «Salute a te, o spirito di gioia! / Tu che non fosti mai uccello, e dall'alto / del cielo, o vicino, rovesci / la piena del tuo cuore in generose / melodie di un'arte non premeditata / …» (4)
Nella poesia italiana nientemeno che Dante ne tratteggia bene il comportamento: «allodoletta che'n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / dell'ultima dolcezza che la sazia» (5)., quasi riecheggiato da Giovanni Pascoli: «chiedi a la dolce allodola, che ad ora/ ad ora per desio di miglior esca/ non voglia alzarsi ad incontrar l’aurora/ […] che lassù romita/ contempla, e canta: e che è dunque il canto?// Il miele ch’è nel fiore de la vita.» (6)
Si constata che ne sono, i poeti, rimasti affascinati come di poche altre creature.
Perché questa forte fascinazione?
Per Davide Rondoni l’allodola è simbolo vivente della poesia, «l’allodola di fuoco [che]a volte si ferma al centro degli occhi di un ragazzino » che «vola dove vuole. E come vuole». Metafora che nutre e motiva la selezione delle Cinquanta poesie che accendono la vita, sottotitolo di L’allodola e il fuoco (La nave di Teseo, 2019).
«La poesia è […] l’allodola, il canto che salva» ribadisce Vincenzo Mascolo secondo la lettura che Stefano Vitale (7) compie di Q. e l’allodola (Mursia, 2018), opera sul senso della quale anche Cinzia Demi esprime considerazioni analoghe, in merito a «quella musicalità della poesia primordiale rappresentata metaforicamente dal canto dell’allodola» (8) nel segno del quale nasce e si compie il libro di Mascolo.
Due titoli recenti, per esemplificare l’attualità dell’identità poesia-allodola. È il canto, in questi due casi, l’elemento che sostiene la metafora.
Il canto dalla «trillante allodola» inserita nella precisione di tempo e ambiente («estate», «alba», «distese di grano») ha altresì richiamato l’attenzione di Antonia Pozzi nella poesia L’allodola. (9)
L’allodola, di Antonia Pozzi
Dopo il bacio – dall’ombra degli olmi
sulla strada uscivamo
per ritornare:
sorridevamo al domani
come bimbi tranquilli.
Le nostre mani
congiunte
componevano una tenace
conchiglia
che custodiva
la pace.
Ed io ero piana
quasi tu fossi un santo
che placa la vana
tempesta e cammina sul lago.
Io ero un immenso
cielo d’estate
all’alba
su sconfinate
distese di grano.
E il mio cuore
una trillante allodola
che misurava
la serenità.
In due poesie Giuseppe Ungaretti inserisce il nostro passeriforme cantatore e messaggero del cielo: la prima che riporto è Dove la luce (10): qui è la leggerezza del volo (“ondoso”, a ben descrivere il saliscendi aereo) ad essere ritratta, quel volo verticale in senso fisico e metafisico, che si spinge in un oltre che sembra trascendere la realtà, contrapposto al «quaggiù».
Dove la luce, di Giuseppe Ungaretti
Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera, vieni.
Ci scorderemo di quaggiù,
E del mare e del cielo,
E del mio sangue rapido alla guerra,
Di passi d’ombre memori
Entro rossori di mattine nuove.
Dove non muove foglia più la luce,
Sogni e crucci passati ad altre rive,
Dov’è posata sera,
Vieni ti porterò
Alle colline d’oro.
L’ora costante, liberi d’età,
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo.
Ho lasciato volutamente per ultimo il secondo testo di Ungaretti, Agonia (11), per la nefasta implementazione di senso che appesantisce il titolo, in quest’ultimo secolo di Antropocene:
Agonia, di Giuseppe Ungaretti
Morire come le allodole assetate
sul miraggio
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato
Il «miraggio» che svia e condanna l’uccello è il famigerato “specchietto per allodole”, declassato nel linguaggio corrente a “trabocchetto”, “tranello”, alleggerito dal tono drammatico di “trappola mortale” per la creaturina che vi si avvicina scambiando i riflessi degli specchietti per quelli dell’acqua. Non sono solo la caccia (12) o il bracconaggio a determinare il calo delle popolazioni di allodola in Europa, Italia compresa, ma anche le tecniche di agricoltura intensiva (gli insetticidi diminuiscono le risorse di cibo specie per i nidiacei, lo sfalcio dei prati in pieno periodo di nidificazione sul terreno distrugge i nidi e i piccoli appena nati) e la sottrazione di habitat idonei, in un intreccio complesso ha portato, per esempio, ad un calo dell’80% della popolazione nidificante in Lombardia negli ultimi 15 anni. Poco consola che, come abbiamo visto, il simbolismo dell’allodola sopravviva bene nella poesia italiana o nei trattati ornitologici: è necessario che anche il volo ed il «canto delle allodole / che svettano sul prato» (13) continuino a ornare albe e primavere.