Qualcuno che canti le follie di Dio (X) – I giusti
Un uomo che coltiva il suo giardino, come
voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la
musica.
Chi scopre con piacere un’etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud
giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una
forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina
che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine
finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male
che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia
Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli
altri.
Tali
persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
Jorge
Luis Borges, I giusti.
C’è
una storia della tradizione ebraica, tramandata fino ai nostri giorni, nella
quale si racconta che per ogni epoca del mondo, e quindi anche nel nostro tempo,
ci sono trentasei giusti grazie ai quali il mondo non viene meno. I giusti si
dice che probabilmente non si conoscono fra loro e soprattutto non sanno di
esserlo. Sono esseri umani semplici, che vivono la loro vita. Ho sempre
immaginato, dalla prima volta che mi sono imbattuto in questa storia, che siano
esseri umani che realizzano chi sono fino in fondo, che sono fedeli alla
propria vocazione in ogni istante della propria vita, senza tradirla mai.
Essere fedeli alla propria vocazione fino in fondo non vuol certo dire,
necessariamente, fare cose che saranno ricordate nei secoli. Chi è fedele alla
propria missione si riconosce subito, sia che guidi una nazione o che lavori
alla cassa di un supermercato. Si riconosce perché dopo che ci si è avuto a che
fare, anche per pochi istanti, ci sentiamo meglio, e solitamente viene da
sorridere.
Nel
libro La vita grande di Bobin c’è una sorta di piccolo racconto, di circa una
pagina e mezzo, che verso la fine recita così: La vita non è il mondo. La vita è eterna. Il mondo passa e sarebbe da molto tempo precipitato negli abissi se
dei facchini non lo trattenessero sull’orlo del precipizio.
Ecco,
quei facchini mi hanno sempre fatto pensare ai trentasei giusti della
tradizione ebraica. Così come i trentasei giusti della tradizione ebraica mi
hanno sempre fatto pensare ai giusti di Borges.
Nella
fine del racconto, Bobin, afferma che gli piacerebbe un giorno essere degno dei
facchini. Non arrivare ad essere uno di loro, ma esserne degno. Credo che l’ambizione
di Bobin sia condivisibile. Se non possiamo essere della stirpe dei trentasei
(magari qualcuno di voi lo sarà senza saperlo) cerchiamo di esserne degni, e
grati. Soprattutto, grati. Perché un cuore colmo di gratitudine è un cuore
sempre pronto e aperto alla bellezza e alla poesia, e Turoldo diceva convinto
che sarà la poesia a salvarci, o meglio, anche la poesia…