Riccardo Delfino: tra corpo e molteplicità dello spazio
Immagine di copertina: Pablo Picasso, L’Étreinte (1901)
La
parola poetica quale strumento di riconciliazione con il Sé impossibilitato a
saziare, attraverso i corpi, la propria sete di assoluto. In Versicidio (Terra d’ulivi, 2023) il
corpo è fulcro della riflessione poetica dell’autore: esso è oggetto di
dislocazioni, confinamenti o decostruzioni che anzitutto segnalano al lettore
il non-senso di un’esistenza fondata sull’impossibilità di un baricentro. Il
corpo è in balia dello spazio e delle relazioni che si producono al suo
interno. Il movimento che lo porta al di là di sé si realizza nella tensione
costante ad alterare lo spazio per delimitare su quest’ultimo un punto di
approdo. La complessa partitura lirico-formale dei testi di Delfino è frutto di
un dislocamento del pensiero, nel rapporto con l’esteriorità, che rimane pur
sempre condizionato dal movimento che si installa nel reale. Lo stile del poeta
romano non è da intendersi come effetto di mere esigenze formali, quanto di
posizionamenti rispetto al molteplice
dell’evento: tre sezioni (Necessità,
Baricentro, Terraferma) che si strutturano come un incastro nel quale contenere
una molteplicità irriducibile e perpetuamente generativa di temi: la vita, la
morte, il sesso, la distanza dal Sé, la malattia, l’amore, il disincanto, la
mancanza di senso, l’insignificanza. Tutto si esprime nella brutalità della
sottrazione e della violenza, cui fanno appello il titolo della raccolta e il
testo di apertura:
La ricchezza lirica è nel verso
che cede, non in quello che
resta in vita; come l’omicida
che nella morte cerca la vita,
un poeta non poeta
se non facendosi versicida.
Nell’amore
le istanze di senso che intridono la tensione poetica soggiacciono alla sintassi
del crollo e della morte:
Quando viene quella scarica,
accuratissima, stringo sempre le
labbra
a due dita, è lei, è l’oscena
prefazione
del fine vita, è rito, preghiera:
che gli si spezzi adesso il fiato,
o che duri minuti, ore, una vita
intera;
predico una voracità immonda,
strabica, che non sa mai cosa
adorare:
se i miei orgasmi, se il suo silenzio
o i suoi spasmi, se la vita o la sua
parte terminale; ma io l’assecondo
l’assecondo l’assecondo, godo,
piango.
È tutto da rifare. La morte è l’unico
amore che posso dare.
Nondimeno,
il desiderio d’amore è la materia di un sentire poetico ferito alle radici stesse
della sua esistenza:
Dunque il sangue mi ha mentito:
non c’è modo di educarsi al suicidio,
ovunque ho causato disfacimento
per temperare un abisso personale
che resta ancora invigorito.
Erano tutte morti inautentiche;
dietro, dietro ogni fine, si è sempre
celata l’idea della mia, il bisogno
di qualcosa che mi portasse via,
un passaggio fugace, una malattia.
Il
bisogno dei corpi pare messo in azione dal desiderio di un’innocenza prenatale,
irredimibile anche per la parola poetica:
La mia necessità è un fatto
ciclico, sacrale: cerco l’anima
scavando i corpi ma non trovo
che la mia voglia di scavare.
Ai
termini oggettivi della degradazione e della rovina si accompagnano i moti di
un’interiorità convulsa, cui il poeta ascrive una precisa geografia
versificatoria:
Mi ero quasi lasciato cauterizzare
dal prolungato digiuno invernale.
Ero tornato incolpevole. Felice.
Ma ecco tornare in ricorrenza
- costole all’aria e fianchi azzimi -
l’estate della magrezza istigatrice.
«L’interno»
aspira allo sconfinamento al di fuori di sé, ma volta per volta si ritrova dinanzi
nuovi rapporti di forza che delimitano e ampliano a un tempo la sfera del
desiderio:
Interno (II)
C’è una finestra spaccata un ragazzo
dagli occhi azzurro fine
c’è il nemico c’è un rosario spezzato
c’è lo sporco del camino sulle guance
c’è il mio disarmo c’è lo spazio
bagnato
tra i fori del corpo e quelli del
marmo,
c’è la rossezza mattutina, non c’è
l’alba,
c’è il mio interno che sconfina…
L’identità
è anch’essa frutto di un rapporto di forza che perimetra le potenzialità insite
nello spazio e ancora corpi, movimenti e narrazioni:
Dio. Cos’è successo. Dalle tue
efelidi
a questa luce bianca, fuori il vento
stanca, la sua assenza ci mutila di
nome;
ed io, anche se reso impronunciabile,
io ti manco, ti manco come manca
alla coscienza uno spazio dove
afferrare
il suo odore. Sai, tesoro, ci è
caduto
ogni pronome: l’anima smette di
profumare
quando il malato si scopre corpo,
fetore.
Dal corridoio due voci sgranate:
bambini
scremano le bocche illesi
dall’amnesia:
mentre dietro la porta si trattiene,
sigillata,
l’aria atrofizzata della malattia.
Il
malato che «si scopre corpo, fetore» è figura simbolo di un’identità che decade
al confine tra la vita e la morte. L’anima smette di vivere quando il corpo
perde ogni possibilità di controllo su di sé e sullo spazio. L’io che assiste
al decadimento della parvenza di un centro apprende che ciò su cui ha costruito
la propria identità è qualcosa di arbitrario, utile ad assegnare un senso all’esistenza:
Torno a casa e m’accoglie
puntualissimo
l’abbandono: quanto s’è fatto grande
il crepaccio
ch’è adesso una seconda porta; io e
la mia casa
siamo fatti di viscere corrugate, che
quasi
a gelosia sono inverate allo stesso
tempo;
e non sappiamo quando proclamare
cedimento:
quando una casa non è più casa o
quando
un uomo non è più uomo; crediamo
nell’arbitrarietà del baricentro:
che l’olocausto delle vene sia quello
del cemento.
Significativa
è, a tal proposito, la quartina che apre la terza e ultima sezione del libro, Terraferma:
C’è in ognuno di noi
un fallimento primo:
la pretesa dell’essenza
da uno spazio descrittivo.
In
Delfino la rappresentazione si nutre di un humus filosofico il cui lessico,
orbitante attorno alle sfere concettuali del corpo e dello spazio, si presta a
una forte drammatizzazione simbolica delle cose. Il corpo dei testi è frutto
della traslazione di uno scontro fra il poeta e il reale, impregnato dei volti
e dei discorsi nei quali si disvela tutta la precarietà delle radici.