Giuseppe Giovanni Battaglia: "le morte cose ritornano alla terra"
a cura di Pietro Romano
immagine di copertina di Pietro Romano
L’otto luglio del 1974, su «Paese sera», Pier Paolo Pasolini pubblica un articolo intitolato «Lettera aperta a Italo Calvino», confluito, poi, in Scritti Corsari con il titolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino. Rispondendo a Italo Calvino, l’intellettuale accusa la moderna società dei consumi di avere spazzato via il mondo contadino, preborghese e transnazionale:
È
questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto
fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango(…) Gli uomini di questo universo
non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con
l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane.
Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed questo, forse che
rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro
che i beni superflui rendono superflua la vita (…) Dal punto di vista del
linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua
comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli
idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono
costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là
dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità
inventiva.[1]
Pasolini
sviluppa alcune considerazioni circa la nascita di una lingua nazionale
italiana che, unificando i parlanti in nome di una ideologia implicita avente
quali nuclei fondamentali la produzione e il consumo, cancella oppure omologa
tutte le altre forme di espressività linguistica. In un simile contesto,
l’autenticità e la particolarità di talune forme culturali sono
irrimediabilmente destinate a scomparire, soppiantate dalle necessità della
società di massa. Tale è lo scenario socio-politico e culturale al centro della
riflessione poetica di Giuseppe Giovanni Battaglia, il quale, nella sua opera,
evidenzia la necessità di risalire alla lingua della madre, e dunque a
un’espressività linguistica primordiale, coincidente con i sentimenti più
intimi del suo paese natale, Aliminusa. Nato il 24 giugno del 1951, egli vive a
pieno gli sviluppi scaturiti dai grandi eventi sociali del dopoguerra quali la
dissoluzione della civiltà contadina, le nuove migrazioni e l’espansione della
società industriale. A soli diciotto anni, pubblica, insieme a Tano Gullo, la
sua prima opera in versi dialettali intitolata La terra vascia. La raccolta suscita l’ammirazione di Leonardo
Sciascia, il quale vi coglie un «dialetto integrale e lontano», capace di far
rivivere l’integrità del mondo contadino siciliano così come era alle origini:
Caro
Battaglia, quello che a prima lettura, immediatamente, mi ha interessato alle
sue poesie, è il dialetto. Un dialetto integrale e lontano, come una
restituzione alla memoria, all’infanzia, alla vita dei nostri paesi,
all’interno dell’isola come erano tra le due guerre; e da far pensare anche
alla parlata dei nostri emigrati che tornano dopo mezzo secolo, alle parole che
hanno conservato come in vitro, nel vitreo immobile ricordo della povera vita
di allora- diversamente povera oggi. E poi ho visto che alle parole
corrispondevano le cose, la realtà, la situazione in cui l’assume, la
condizione cui si ribella – e insomma il sentimento, la poesia. Ritengo che
questo sia, ancora, il dialetto che si parla ad Aliminusa- questo piccolo paese
nato come escrescenza dal feudo e ancora legato alla terra, sicché non per
facile retorica i suoi versi dicono l’odio del contadino al padrone, come più
di cent’anni fa nei paesi rurali che si sollevavano per la libertà. [2]
In
seguito, la lettera dello scrittore sarà inserita in veste di prefazione al
secondo libro di Pino Battaglia, La
piccola valle di Alì (Flaccovio, 1972). In un’intervista che rilascia a
Enzo Golino nel dicembre 1973, Pier Paolo Pasolini, alla domanda: «È possibile
oggi una poesia dialettale? I giovani scrivono ancora versi in dialetto?»,
risponde: «Ignazio Buttitta per la Sicilia, Albino Piero per la Lucania, Tonino
Guerra per la Romagna sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma non sono
giovani e da tempo hanno descritto un mondo ora scomparso. Tra i giovani
ricordo soltanto un ragazzo palermitano, di vent’anni, che ha pubblicato un
esiguo libro in versi siciliani con la prefazione di Leonardo Sciascia». Il
riferimento è chiaro: il poeta di cui Pasolini non ricorda il nome è Giuseppe
Giovanni Battaglia.
Stabilitosi
a Roma, Battaglia incontra Gaetano Giganti e Pio La Torre, reduci dalle
occupazioni delle terre in Sicilia. Nel 1977, pubblica Campa padrone che l’erba cresce, con la prefazione di Tullio De
Mauro. Poco più tardi, su invito di Aurelio Colletta, scrive per la rivista
«Sindacato». Nel giugno del 1979, riferendosi ai fatti criminosi che hanno
visto protagonista il banchiere Michele Sindona, firma un articolo intitolato Sindonia di anime morte, dove scrive:
O
mostri dell’intelligenza, menti mostruosamente fantastiche, genia sublimemente
illuminata. O sterminatori di lucciole e di rami, amici degli uomini e della
poesia, puri di cuore che, anche, il cielo asseconda. Noi, adesso, ammirando la
vostra Opera, non possiamo fare a meno di dire: oh! Ci inchiniamo meravigliati
ai vostri piedi (…) E, se la distruzione delle lucciole pasoliniane, che, dice
Renard, figlie di una goccia di rugiada e di un raggio di luna, sembra sempre
più definitiva, a noi certo poco interessa; noi ci inchiniamo alle grandiose
città, ai centri storici, alle fabbriche, alle scuole. Ci inchiniamo alle
immense opere di Lor Signori. E siamo felici, lo confessiamo. Il mondo, ormai,
è davvero mondo. Muoiono le lucciole ed anche i fiordalisi, finalmente. Le
morte cose ritornano alla terra. Ma la storia, dice un compagno contadino, è
una pentola senza coperchio. [3]
Mentre
in Pasolini è drammatica la coscienza della distruzione del passato, per
Battaglia, al contrario, le «morte cose ritornano alla terra», e dunque ciò che
è stato spazzato via può ritornare secondo altre declinazioni, poiché «la
storia, dice un compagno contadino, è una pentola senza coperchio». Il punto di
vista del poeta risente sempre del mondo rurale, dove tutto è destinato a un processo
di progressiva purificazione e rinnovamento.
Agli
inizi degli anni’80, Battaglia raccoglie la sua poesia in dialetto ne L’Ordine di Viaggio e, dopo qualche
anno, destina al teatro Alchimia. Nel
1984, conclusa la sua esperienza presso la CGL di Roma, rientra in Sicilia,
dove conosce Michele Perriera e, per la sua scuola di teatro Téates, scrive Girello e Astorio imperatore. Nel 1986, pubblica Genesi e Requiem, I luoghi
degli elementi e Sonatine. Dopo
avere conosciuto Carla Martinetto, a cui legherà la sua vita, torna a Roma e
inizia a collaborare con l’Istituto Luce. Nel 1987 pubblica Rocciàs e Inventario degli strumenti del Padre e della Madre. Segue, nel
1988, la seconda edizione dell’Ordine di Viaggio. Ammalatosi, raduna il
suo lavoro poetico fino al 1986 in Poesie
(1991) e nel 1992 dà alle stampe Il libro
delle variazioni lente e il Libro
Mistico.
La
sua attività poetica è caratterizzata dal sodalizio con alcuni pittori, come
Vincenzo Ognibene, Daniele Oppi e Bruno Caruso.
Muore
il 2 novembre 1995 a Aliminusa, all’età di quarantaquattro anni.
Per
ricordarlo, Salvatore Sciascia Editore ha raccolto in un unico volume gli atti
del convegno svoltosi nella chiesa di San Giovanni Decollato di Palermo il 19
settembre 2016, dal titolo Religiosità e
laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, con interventi di
Pierpaolo Punturello, Cosimo Scordato, Francesco Virga e Nuccio Vara. L’evento
è accompagnato dalla lettura di alcune poesie scelte a cura di Patrizia
D’Antona ed è seguito dall’allestimento
di una mostra da parte di Ognibene dal titolo Per Pino e con Pino. Scopo del convegno è stato quello di mettere a
fuoco la compresenza di due componenti fondamentali nella poesia di Giuseppe
Giovanni Battaglia, ovverosia una religiosità imbevuta di nostalgia del tempo
passato e un’assoluta autonomia rispetto a ogni condizionamento morale,
religioso e ideologico. Il volume, uscito nell’aprile di quest’anno, raffigura
in copertina un’opera dell’artista Vincenzo Ognibene, Dello sguardo e del cuore (Pino), 1992, autore, peraltro, della
nota introduttiva in cui si delineano il poeta e le diverse iniziative tenutesi
negli anni per ricordarlo. Religiosità e
laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia si apre con un
intervento di Pierpaolo Pinhas Punturello, Battaglia
lo scriba, dove si evidenzia il carattere arcaico e ancestrale della
ricerca poetica di Pino Battaglia:
Facendosi
accompagnare dai versi di Giuseppe Giovanni Battaglia dovremmo porci una
domanda ancestrale, perché arcaico e ancestrale è il vento delle parole ed il
rivolgersi delle opere di Pino Battaglia. [4]
Cifra
peculiare dell’opera di Battaglia è l’uso del racconto biblico per «indicarci
l’idea di più strade per la propria storia, per ciò che non racconta, ma ci
invita a guardarla quella storia, a comprenderla tra pietre, vene, estraneità
da se stessi di cui Rut è il simbolo, di cui Tobit è custode, lì dove l’amore
ed il timore di entrambi per Dio è rivolto ad un Dio più antico delle pietre
stesse evocate da Battaglia come un coro, come compagne lì dove il silenzio del
non racconto è costrizione, censura, imposizione arcaica della violenza della
Storia. Eppure Dio in questa luce che ci offre il poeta non è più elemento
teologico di relazione, bensì identitario». Secondo Punturello, la poesia di
Battaglia persegue una ricerca tematica sull’idea di origine. Il Dio di
Battaglia coincide con l’origine di ciò che noi siamo e che la Storia ha
irrimediabilmente rimosso. Il poeta, quindi, attinge alla tradizione biblica
poiché in quest’ultima riesce a scorgere le radici profonde della sua identità
di siciliano. Egli, attraverso la poesia, ricostruisce la storia della sua
terra, segnata da secoli di sopraffazione e miseria:
Lo
sguardo dello scriba che attinge alla tradizione biblica, intingendo in essa la
penna della propria scrittura, non può quindi essere casuale, né puramente
spirituale e teologico. È uno sguardo arcaicamente identitario, è una ricerca
attraverso sentieri antichi, silenzi criptici, intuizioni metafisiche che sono
custodi di una fede ed una storia raccontata e trasmessa con accenni, con gesti
silenziosi, con sistemi tradizionali che si rivolgono all’Uno ed Unico
silenziosamente e, altrettanto silenziosamente, sopravvivono alla persecuzione
e all’oblio. La chiave autobiografica del racconto che diventa percorso
narrativo dello scriba Battaglia (…) è antica fonte del proprio essere
siciliano, contadino, devoto, esule e poeta[5]
Ma
Pino Battaglia va oltre l’arcaico. Mediante una personalissima rilettura del
testo biblico, egli cerca di risalire alle radici del metafisico per
prospettarci l’esistenza nella sua ultima verità:
L’arido
regni dov’è terra e l’oscuro dov’è cielo/luce dia dunque risalto alla mia
luce/affinché io possa definire il mio contrario/il giorno sia del puro e sia
dominio,/la notte del perso nel proprio equivoco. [6]
Allo
stesso tempo, la poesia di Battaglia tenta di ricostruire l’intreccio
apparentemente incomprensibile delle cose riproponendo, in chiave originale, il
tema dell’armonia dei contrari e della loro costante tensione a essere. Il
canto è un travalicare, un andare oltre. Esso suggella un compimento e
definisce un emergere cosmogonico, in cui l’io poetico non riconosce più limite
valido a circoscrivere le percezioni del suo animo. Lo spazio si apre al
possibile, come direbbe Hölderlin. In tal senso, il pensiero dell’io poetante si
smarrisce in un intrico di visioni, tali da mettere a fuoco l’equivoco
dell’essere e del non-essere e la coesistenza di finito e infinito. E tuttavia,
l’inversione degli opposti è cagione di vaghezza e spaesamento:
M’abbandono,
e mi dona altra vaghezza/ il perdurare nell’umido e nel secco[7]
Consegnarsi
al flusso delle cose, dunque, significa potere ricevere in dono «altra
vaghezza», e quindi esperire una regressione al primordiale. Al contempo,
abbandonarsi consente una fuoriuscita dai confini abituali dell’esistenza. La
narrazione metafisica del reale si condensa in fulminee e nitide accensioni,
spesso veicolate da uno scenario paesaggistico. Le sensazioni indefinite
producono una naturale tensione verso il Dio delle cose, figura di un rapimento
e poi di un inabissamento dentro il Sé. La poesia di Giovanni Battaglia è tutta
«interiore», congiunta a una inquieta visione del cosmo dove la coincidenza dei
contrari determina un ritorno all’indistinto, una mescolanza. E infatti, Francesco
Virga scrive:
Gli
elementi contraddittori (i contrari) presenti in apertura della sua Genesi
tornano in tutti i sei giorni successivi. In forme diverse le coppie dei
contrari s’inseguono tra loro (maschio e femmina, sapienza e mancamento,
perdita e allontanamento, limpido e torbido, generazione e corruzione, umido e
secco) e sembra che trovino pace solo nel settimo giorno, quando il poeta
sembra avere raggiunto, seppure in forma vaga, la consapevolezza dialettica che
tutto l’universo è pervaso da contrari[8]
La
coincidenza, quasi simbolica, degli opposti, serve a introdurre la separazione
degli elementi:
Vaghino
gli animali d’acqua nel molle ventre/della passiva luna e gli animali
d’aria/negli antri del sole. A ciascuno il suo/ affinché da corrispondenze e
dissimilazioni /consegua significato e svuotamento. [9]
Come
emerge dai versi succitati, non si tratta di una separazione distruttiva, poiché
prelude alla formazione delle cose quali sono nel nostro mondo. Il poeta intende
spiegare la nascita e la morte, ricorrendo all’idea del combinarsi e del
dividersi degli elementi che costituiscono il reale. L’esito è sempre l’uno, e
cioè il distinto, che continua a essere animato da forze opposte:
Vengano
gli animali dell’asciutto e dimora/abbiano e nocumento. Sia l’uomo e sia Uno,/
maschio e femmina affinché abbiano/dominio e mancamento d’altezze/s’inebrino
per emendamento[10]
Come
ben descrive Virga nel suo intervento, Giuseppe
Giovanni Battaglia: un poeta corsaro, agli occhi del poeta solo la morte
può consentire una riconciliazione con l’indistinto:
Pino
Battaglia sa che il suo viaggio sta per volgere al termine, egli ha ormai preso
distanza da tutte le cose amate nel corso della sua breve ma intensa vita. Non
gli costa nulla, ora, riconoscere d’essere stanco e si rivolge così al suo
unico Signore: Mia roccia, mio Signore, donami il sigillo della dimora/perché,
ormai, è sera e io sono il viandante/(…) Ora io sono stanco. Le vene dolci
della viva pietra/io voglio per dimora e nella legna che brucia
consumare/l’arte. Vengano ai tuoi piedi tutte le strade/che ho percorso. Ti
chiedo grazia. [11]
Secondo
Cosimo Scordato, il punto focale di questa visione dipende dallo sguardo del
poeta sul mondo. Dinanzi al dispiegarsi degli spazi Battaglia intuisce che il
proprio sentire si inserisce nella vita che scorre perennemente e suggella la
sua presenza, un suo esserci fra le cose del mondo:
Se
si ha la pazienza di lasciarsi interpellare dai versi di Battaglia allora si va
scoprendo che, dentro il suo procedere essenziale e scultoreo, va emergendo
quella sensibilità particolare che ci obbliga a guardare alla realtà includendo
sempre il punto di vista dell’osservatore (…); i luoghi, per intenderci, come
li chiama lui, nei quali la presenza dell’uomo è determinante perché in essi
l’uomo interagisce con ciò che accade dando la propria impronta ed esprimendo
la sua presenza; è un esserci quello di Battaglia nel quale soggetto e oggetto
stanno insieme e in qualche modo si fondono [12]
La
parola poetica finisce così per avere una funzione rivelatrice. Scavalcando a
ritroso il presente, il poeta vuole indicarci la strada della rivelazione di
una verità segreta e assoluta, coincidente con l’origine mitica e incontaminata
dei significati e dei linguaggi:
Ma
il senso del mistero di Battaglia non scivola verso qualcosa di panteistico
quasi che vada sacralizzata la natura; esso va maturando in direzione di una
Presenza che custodisce dentro di sé tutta la realtà (della creazione e
dell’uomo); compito dell’artista è di portarla alla luce, di lasciarla
trasparire come qualcosa che a sua volta ci contiene in sé (…) Prevale una
percezione apofatica della parola, della conoscenza estensibile, alla fine, a
tutto il senso della vita; l’incomprensibilità non è rinunzia a capire,
piuttosto è consapevolezza che non si comprende mai abbastanza e questo è
scatenante di nuova ricerca e di cammino mai esaurito. [13]
La
consapevolezza di non potere approdare a un possesso totale della verità
alimenta il senso del sacro. Al contempo, tuttavia, entrare in rapporto con il
mistero profondo delle cose determina «un senso di quieta inquietudine; sì,
perché avverte che la fede non è un atto della ragione o della riflessione,
essa sgorga dal cuore e al cuore riporta». Anche Nuccio Vara, come Cosimo
Scordato, segnala il sentimento di inquietudine che pervade il cuore del poeta
dinnanzi al mistero:
Le
scintille del nuovo senso e l’anelito verso la Verità non placavano però del
tutto i conflitti che si andavano consumando nell’intimità di Battaglia.
Anch’egli, infatti, alla stregua di Giacobbe (Genesi, 32, 24, 32), non voleva
sottrarsi allo scontro a viso aperto con Dio, preludio di ogni conversione che
aspiri ad essere realmente tale: «Il mistero è più forte dell’accadimento e non
v’è/sostanza che regga all’oro che tu poni sulle mie mani/ e alla solitudine
che mi esplode nel petto. Non posso/ perdere, ma soprattutto, non posso
perderti.[14]
Il
desiderio di colmare la ferita della distanza da Dio è sempre vivo e dolente:
La
parola poetica qui si intersecava con la riflessione teologica, la quale
consentiva a Piddu, e questa volta in una chiave prettamente cristologica, di
approssimarsi al volto di Dio[15]
Il
Dio a cui Battaglia anela è il Dio degli umili e degli sconfitti:
Quel
che il poeta di Aliminusa, ormai prematuramente prossimo, anzitutto cercava non
era tanto (o soltanto) il Dio che poteva tappare i buchi della sua vita
sfortunata e dolente, quanto il Signore dei matti e dei poveri, il liberatore
della schiavitù e dei potenti. [16]
La
poesia, dunque, risarcisce, entro orizzonti permeati dalla fede, tutti coloro
che sono stati spazzati via dal nuovo corso delle cose. Tuttavia, il male resta
un enigma e risponde a ragioni che la mente umana non può ricostruire. Certo è
che, come Nuccio Vara ci sottolinea, ci troviamo di fronte a una delle figure
più significative della poesia italiana del Secondo Novecento, capace di
rappresentare, attraverso una poesia moralmente radicata nel presente, le
brutali contraddizioni del nostro tempo.
[1] P.P.Pasolini, Lettera aperta a Italo Calvino: P.: quello che rimpiango, «Paese
sera», in Scritti corsari, Garzanti,
2016, pp.53-54
[2] L. Sciascia, in G.G.Battaglia, L’ordine di viaggio, p.155, disponibile
in P.P.Punturello, C.Scordato, N.Vara, F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia,
Salvatore Sciascia, p.55
[3] G. G. Battaglia, «Sindacato»,
periodico della Camera del Lavoro di Palermo, n.5, giugno 1979, p.21
[4]
P. Punturello- C. Scordato-N.
Vara- F. Virga, Religiosità e laicità
nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, Salvatore Sciascia, p. 21,
2018
[5] Ivi, p. 21
[6] Giuseppe Giovanni Battaglia, Genesi e Requiem, in P. Punturello- C.
Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e
laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, cit., p.81
[7] Ivi, p.82
[8]
P.P.Punturello- C.
Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e
laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, Salvatore Sciascia, p.
70, 2018
[9] Giuseppe Giovanni Battaglia, Genesi e Requiem, in P. Punturello- C.
Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe
Giovanni Battaglia, cit., p.82
[10] Ibidem
[11]
P.P.Punturello- C. Scordato-N. Vara-
F. Virga, Religiosità e laicità nella
poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, Salvatore Sciascia, p. 70, 2018
[12] Ivi, p.29
[13] Ivi., p.35
[14] Ivi,p.50
[15] Ibidem
[16] Ivi, p.51