La lingua degli uccelli (V) - I canti e le gabbie
rubrica a cura di Alfredo Rienzi
fotografia in copertina: "Gabbia vuota" di Alfredo Rienzi (2022)
A volte i doni più pregiati che la Natura concede alle sue creature, in questo mondo che sempre è stato, è e sarà, di luce e ombra, finiscono per divenire le peggiori condanne. Quando poi c’è di mezzo il presunto custode bipede della «terra, del mare e di tutto ciò che essi contengono» (Salmi 146,6) il gioco degli equivoci e delle storture si complica maledettamente. Così le preziose pellicce dei felini, gli avori dei pachidermi, le piume da volo e da parata dei pennuti volgono al triste ruolo di (quanto necessarie?) materie viventi da possedere e predare.
Altrettanto perfido, nonostante il travestimento e l’imbellettamento retorico, è da lunga data e continua ad esserlo, l’incarceramento degli uccelli cantori nelle gabbie, per il sollazzo delle orecchie umane. Questa situazione è forse uno dei più evidenti ritardi di presa di coscienza, nonostante la stagione di “amore per il pianeta”, sulla cui essenza e purità, molto ci sarebbe (in altra sede, tranquilli!) da dire.
L’uccello in gabbia, anche in letteratura, è quasi uno stereotipo. Uno stereotipo ambiguo, sul quale hanno provato a farci riflettere gli Inseparabili – e gli altri uccelli - del romanzo The birds di Daphne du Maurier, del 1953, reso celebre nel 1963 dal capolavoro di Alfred Hitchcock.
Uno stereotipo su cui si innesta la riflessione e la metafora su prigionia e libertà, come nella poesia «L’uccello prigioniero nella gabbia» di Tagore ne Il Giardiniere(1) o, in maniera spiazzante, nella straordinaria «La poesia» di Trilussa [cfr. il capitolo 3 “Il merlo, il Beethoven dei volatili"(2)]dove un merlo teme più di finire in una poesia che in una gabbia. E non importa, anzi accentua il senso drammatico, che la gabbia sia d’oro, come quella descritta da Leonardo Sinisgalli («Sono un uccello prigioniero/ in una gabbia d'oro.»(3) E nemmeno che sia aperta, volando verso la celebre metafora del giovanissimo Leopardi:
L’Ucello, di Giacomo Leopardi(4)
Entro dipinta gabbia
fra l'ozio ed il diletto
educavasi un tenero
amabile augelletto.
A lui dentro i tersissimi
bicchieri s'infondea
fresc'acqua, e il biondo miglio
pronto a sue voglie avea.
Pur de la gabbia l'uscio
avendo un giorno aperto,
spiegò fuor d'essa un languido
volo non bene esperto.
Ma quando a lui s'offersero
gli arbori verdeggianti
e i prati erbosi e i limpidi
ruscelli tremolanti,
de l'abbondanza immemore
e de l'usato albergo,
l'ali scotendo, volsegli,
lieto e giocondo, il tergo.
Di libertà l'amore
regna in un giovin core.
Ma, scendendo un po’ nello specifico, quali sono gli uccelli da canto che più di altri sono destinati a dispensare le loro melodie in gabbia? E che note hanno lasciato, per interposta penna (il doppio senso è tale solo in apparenza), nella poesia italiana moderna e contemporanea?
Ci sarebbe da attendersi o cercare e riferire presenze delle specie nostrane, autoctone, non esogene, che più possono avere influenzato scrittori e poeti.
Ma da quando Roma – e altre città – risuonano dei versi dei verdi parrocchetti (non proprio dei “canti”, in effetti, tanto che Neruda scrisse «Asì non se puede dormir»(5)) e da molti secoli l’uccello più allevato per il canto, ovvero il canarino (Serinus canaria), è di origine ben esplicitata dal suo stesso nome, forse non sarà così netta la linea di confine.
Tra le specie (tutte appartenenti al raggruppamento degli Oscini, detti comunemente passeri o uccelli canori) che più d’altri temono un destino da reclusi – e il corollario di diventare, come il merlo di Trilussa, ospiti di versi poetici - annoveriamo il cardellino (Carduelis carduelis, il cui commercio è ora illegale, limitato agli animali nati in cattività), il pettirosso (Erithacus rubecula), il fringuello (Fringilla coelebs), il verdone (Chloris chloris).
Di Umberto Saba è noto il suo amore per gli uccelli: galline, civette, passeri, merli e, in particolare, canarini. Due sue raccolte in particolare ne parlano: Uccelli (1950) e Quasi un racconto (1947-51)(6) dove osserva e descrive, in dieci poesie (Dieci poesie per un canarino), con amorevole trasporto la vita e l’accudimento dei suoi piccoli volatili. La seconda poesia, tra queste dieci, è Uccello di gabbia e nella prima strofa, con un cenno di tenerezza, rende obliquamente omaggio ai due eccellenti cantori cui ho precedentemente dedicato specifici articoli: usignoli(7) e merli(8).
Uccello di gabbia, di Umberto Saba(9)
Tenorino di grazia egli le strofe
non sa dell’usignuolo e non ha il cuore
caldo del merlo.
Pago a due foglie di radicchio, in gabbia,
dov’è nato non mette angoscia; libero
per la stanza mi viene, e a quelle, incontro.
I miei risvegli sono un poco meno
tristi per lui che alla finestra i passeri
richiama: aeree zuffe. Ed io dal letto
la sua nessuna meraviglia godo.
Complesso e screziato, il rapporto di Saba, anziano e depresso, con i piccoli volatili. A volte quasi una pet therapy ante-litteram. A volte, la consapevolezza malinconica della fessura-abisso tra carceriere e carcerato:
Nostalgia, di Umberto Saba(10)
Con occhi intenti seguono ogni mossa
delle mie mani industri a rinnovare
la gabbia al novo giorno. Un’ombra appena
d’apprensione superstite, visibile
al buon custode. Contentezza provano
che m’occupi di loro, e quella esprimono,
se intendo il loro linguaggio, in sommessi
brevi trilletti.
Ma forse è umana illusione che ai tetti
degli uomini e alle cure siano paghi.
Una gabbia è una gabbia; e in cuore vaghi
serbano indistruttibili ricordi
delle Canarie, dei natii boschetti.
Il pettirosso, cui lo stesso Saba dedica una poesia nella quale fortunatamente ammette «Trattenerti, volessi anche, non posso»(11), è infatti meno associato alla gabbia, sia del canarino che del cardellino. Condivide con quest’ultimo valenze iconografiche legate alla Passione di Cristo. Secondo una leggenda cristiana, la chiazza rossa del pettirosso, la maschera cremisi del cardellino e il rosso rugginoso di faccia e petto del fringuello sarebbero conseguenze delle ferite procuratesi con le spine della corona, a seguito del compassionevole tentativo di soccorso del Crocifisso.(12)
Ma per “liberare” letterariamente il pettirosso dall’oscena prospettiva della gabbia (e rinviare ad un successivo articolo l’esame della sua presenza nella poesia italiana) pongo ad anatema i versi di William Blake: «A Robin Redbreast in a Cage/ Puts all Heaven in a Rage»: un pettirosso in gabbia/ fa infuriare il Cielo (ndr)
Meno benevolente è stato il rapporto del cardellino col custode/carceriere umano. Grazie al dono-condanna del suo articolato e melodioso canto, ha conosciuto e conosce la gabbia. Succede ancora che sia vittima dei bracconieri e destinato ad una vita di cattività. La sua detenzione è severamente regolamentata, ma qualsiasi legge, ahimè, si abbina, non solo nel detto, al relativo inganno. In ogni caso non è una legge introdotta nel 1992 (n. 157 del 11 febbraio 1992 e successive modifiche e integrazioni) che può aver modificato ad oggi il panorama artistico e letterario sul cardellino. La presenza nostrana ne ha favorito una cospicua presenza nella pittura e forse l’esempio più celebre è la Madonna del Cardellino di Raffaello. Qui, oltre al simbolismo canonico (il cardellino come uccello cristico) il pittore riproduce un comportamento piuttosto noto del fringillide, ovvero la sua confidenza con l’uomo ai limiti dell’addomesticabilità e, nella purezza dell’infanzia, dell’affetto, come quello di Tita, il nipotino triste della poesia di Gozzano
La morte del cardellino, di Guido Gozzano(13)
Chi pur ieri cantava, tutto spocchia,
e saltellava, caro a Tita, ora è morto.
Tita singhiozzava forte in mezzo all’orto
e gli risponde il grillo e la ranocchia.
La nonna s’ alza e lascia la conocchia
per consolare il nipotino smorto:
invano! Tita, che non sa conforto,
guarda la salma sulle sue ginocchia.
Poi, con le mani, nella zolla rossa
scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo
d’ asfodeli di menta e lupinella.
Ben io vorrei sentire sulla fossa
della mia pace il pianto di quel bimbo.
Piccolo morto, la tua morte è bella!
Note
1 - «L’uccello prigioniero nella gabbia,/ l’uccello libero nella foresta:/ […] cantano:/ “Vieni vicino a me, amore mio!”/ L’uccello libero grida: “È impossibile,/ temo le porte chiuse della gabbia“/ L’uccello in gabbia sussurra: “Ahimé,/ le mie ali sono morte e impotenti”», da Rabindranath Tagore, Poesie. Gitanjali – Il Giardiniere, Newton C., 1988, cura e traduzione di Girolamo Mancuso, pag. 163
2 - http://www.bottegaportosepolto.it/2023/06/la-lingua-degli-uccelli-iii-il-merlo-il.html
3 - Leonardo Sinisgalli, “Chi non ama non ricorda” in I nuovi Campi Elisi, in Poesie di ieri, 1931-1956, Mondadori, 1966
4 - Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, a cura di Alessandro Donati, Laterza,1924.
5 - Pablo Neruda, Choroy/Parrocchetto, in Arte degli uccelli (1966), Passigli, 2004, p. 68
6 -Uccelli fu pubblicato nel 1950 per le Edizioni dello Zibaldone di Trieste; nel 1951, sempre con Mondadori, uscì con l’aggiunta di Quasi un racconto il volume XIV di Tutte le opere, Uccelli-Quasi un racconto (1948-1951)
7 - http://www.bottegaportosepolto.it/2023/07/la-lingua-degli-uccelli-iv-lusignolo-il.html
8 - v. nota 2
9 - Umberto Saba, Dieci poesie per un canarino, in Quasi un racconto (1951), in Il Canzoniere, Einaudi, 2004, p. 560.
10 - ivi, p. 585
11 - in Uccelli. Quasi un racconto (1948-51) in Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, Mondadori, 1998
12 - Alfredo Cattabiani, Volario, Mondadori, 2022, p. 383
13 - Guido Gozzano, La via del rifugio, Casa Editrice Renzo Streglio, Torino, 1907