Qualcuno che canti le follie di Dio (XIII) – L’amore è un’altra cosa
Io
lo so che l'amore è un'altra cosa.
Non il bacio furtivo, non lo sguardo
che fulmina le cellule. Lo so
raccogliere nell'aria, quando rapide
le rondini sussurrano il segreto
che l'anima conosce. Non si è soli
quando l'amore parla la sua lingua.
Io conosco l'amore che non passa
quando gli amori se ne vanno. Sto
sovente nella notte, accarezzato
da una brezza soave. Non è il sogno
che ricorda, non l'attimo che artiglia.
È un altro farsi che non si possiede.
Amore, chi ti incontra non sa dirti.
(Filippo
Davoli)
La prima volta che ho letto questa poesia mi sono dovuto
fermare, alla fine, dopo l’ultimo verso. Non perché stessi camminando,
tutt’altro, ero fermo, seduto per terra, nella cella di un monastero in cui ero
ospite. Era la mia ultima notte lì. Non volevo sprecarla. Non la sprecai.
Perché un caro amico, nonché poeta, mi aveva prestato il libro dove stava
questa poesia. Il caro amico è Michele Bordoni, e a lui devo il mio incontro
con Filippo, con le sue poesie.
Ripresi fiato e lessi di nuovo. E ancora. Mi commossi e lessi ancora, ancora. Ogni volta che leggevo sentivo portarmi più vicino a un mistero. Io lo so che l’amore è un’altra cosa è un verso di una forza ancestrale, un’apertura geniale, un primo verso che dichiara in maniera inequivocabile che l’amore non è quello che crediamo, che siamo fuori strada a prescindere.
Il poeta ci dice quello che non è, ed elimina in due versi ogni sentimentalismo, perché l’amore (e forse lo scopriamo con sommo sbigottimento) non è un sentimento, e di certo non vive di sentimentalismi. No, l’amore è un’altra cosa.
Non si è soli quando l’amore parla la sua lingua. Ma ci è mistero
anche questa lingua, chissà se mai l’abbiamo udita. Magari l’abbiamo scambiata
per qualcos’altro e non compresa l’abbiamo messa a tacere. Questa lingua
segreta che forse è la lingua delle piante. Delle costellazioni. Forse è il
canto segreto che abita ogni cuore. Quello che permette al poeta di dire: Io conosco l'amore che non passa quando gli
amori se ne vanno. Allora lo si intuisce che non è quella cosa che inizia
furibonda, quell’energia che ci spinge verso una persona e ce la fa desiderare
furiosamente, che ci fa volere quella persona sopra ogni cosa, che ci fa
credere impossibile ogni felicità senza quella persona e poi, dopo qualche
anno, talvolta qualche mese, di quella persona improvvisamente non ci importa
più niente, nel migliore dei casi ci importa di meno, talvolta non la possiamo
più nemmeno guardare, la detestiamo, ci chiediamo come è stato possibile averla
desiderata? Diciamo è finita. Non ti amo più.
Il poeta conosce l’amore che non passa quando gli amori se ne vanno. Conosce l’amore che resta, nonostante tutto. Resta per prendersi cura, resta perché non ha motivo di andarsene. Resta perché non sa finire, non può finire, non è la sua natura. Un amore che non è rivolto solamente a un essere umano perché è talmente grande, talmente forte, e talmente cresce, che non basta nemmeno l’universo intero a contenerlo. L’amore che ha dato vita a tutto!
L’amore che l’apostolo Giovanni così canta nella sua prima lettera, nel Nuovo
Testamento: “Carissimi, amiamoci gli
uni gli altri, perché l'amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce
Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è
manifestato per noi l'amore di Dio: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito
nel mondo, affinché, per mezzo di lui, vivessimo. In questo è l'amore: non che
noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per
essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci
ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno ha mai
visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore
diventa perfetto in noi”.
Questo amore che davvero somiglia all’amor che move il sole e l’altre stelle. Quello che fa dire: Amore, chi ti incontra non sa dirti.
E forse questa è davvero la via. Non spendere più energie a
cercare di dire l’amore, ma tentare di diventare amore. Con i nostri gesti
quotidiani, con le nostre azioni. Diventare creature capaci di gentilezze
inaudite, impreviste. Sorprendere gli altri con la nostra accoglienza, con la
nostra pazienza. Prenderci cura di ogni creatura, degli alberi che costeggiano
le strade, carezzare con dolcezza le loro cortecce, benedirle con parole grate.
Impegnarsi ogni giorno a diventare esseri umani capaci di tenerezza, senza più
la minima vergogna di sembrare fragili. Smettere di voler apparire qualcosa,
cominciare a essere chi siamo.
Allora forse e dico forse (perché siamo nell’ambito del più
fitto mistero) non ci sarà davvero più bisogno di dirlo l’amore, di provare a
comprenderlo, di decifrarlo, perché ci saremo immersi, e l’amore semplicemente
sarà la nostra realtà. E vedendoci, incontrandoci, nessuno di noi sarà più
capace di definire con superficialità chi ha davanti, tutto apparirà per quello
che realmente è: un capolavoro che non si sa dire, un mistero indicibile,
meraviglioso, che scatena in ognuno sorpresa e incanto.
Troppo spesso dimentichiamo che nasciamo da un atto che è
detto: fare l’amore. Ognuno di noi è il frutto di quel fare, un frutto d’amore.
Non dimentichiamolo mai più.