La lingua degli uccelli (VII) - Corvi, cornacchie & C. (parte I)


Rubrica a cura di Alfredo Rienzi
Fotografia in copertina: Alex Zoboli, Shine on (1 su 29 foto), 2019, c/o Camera, Torino, 2023


Ci sarebbero voluti altri nomi, 

fonemi più morbidi, più suadenti 

giambi per certi uccelli di città, 

forse avremmo così potuto astrarre 

ben modellati immagini, musiche 

imparisillabe tra il bianco e il nero 

delle gazze, al fischio delle ghiandaie 

comporre l’inno del corvo imperiale:

ma lasciamo che taccole e cornacchie 

si portino altrove loro stridori 

i ruvidi bordi delle sagome 

gli spigoli ossuti delle doppie:

sopra l’acida crosta dell’inurbio, 

fuori margine a questi nostri versi 

che malamente spiumano per strada

(da Oltrelinee, Ediz. Dell’Orso, 1994)                                                                                        


La famiglia dei corvidi, dell’ordine dei passeriformi, prende il nome dal suo rappresentante più noto, nonché simbolicamente pregnante: il corvo propriamente detto (Corvus frugilegus) o corvo comune, o corvo nero. Le specie di questa famiglia presenti in Italia non sono molte, ma hanno tutte una forte connotazione. Se il corvo imperiale (Corvus corax), il passeriforme di più grandi dimensioni con il suo metro e trenta di apertura alare, è in Italia poco numeroso e limitato alle aree alpine o comunque ad aree aperte rocciose, le altre specie della famiglia, quali il corvo, la cornacchia nera e la cornacchia grigia, la gazza, la taccola, i gracchi e la ghiandaia, grazie alla loro intelligenza adattativa e al regime alimentare onnivoro, hanno vissuto da sempre a stretto contatto con l’uomo e sono tra gli uccelli che oggi meglio rappresentano il fenomeno dell’inurbamento o della frequentazione di ambienti antropizzati. Fa eccezione la riservata nocciolaia (Nucifraga caryocatactes) che ha un regime dietetico piuttosto specializzato (in prevalenza pinoli) cosicché il suo habitat è rappresentato da pinete e boschi misti montani e di conseguenza – il lettore me ne dia conferma – è meno conosciuta dei suoi parenti e, ciò che rileva qui, meno o molto meno presente nei versi dei poeti. 
Per tutte le altre specie della famiglia non mancano testimonianze, anche cospicue, della loro presenza nella poesia italiana moderna e contemporanea.

Cominciamo dal corvo, assumendo, con una modesta forzatura, una identità simbolica e culturale delle due specie, corvo comune e corvo imperiale.
Il simbolismo del corvo è antichissimo, ricchissimo e – nelle varie culture – controverso. Servirebbe un’opera intera per esaminarlo. Ma visto che tali opere esistono già, e che lo spazio qui è poco e soprattutto da focalizzare sulla poesia italiana moderna e contemporanea, ne indico in nota una per chi fosse interessato [1], attingendo, tuttavia, alla chiarezza della sua scheda editoriale: «Uccello celebrato nei miti di tutta Europa, nel corso dei secoli il corvo ha conosciuto un processo di svalutazione. Mentre l'antichità greco-romana ne elogiava la saggezza, l'intelligenza, la memoria e il dono della profezia, il cristianesimo medievale lo dipinge come un uccello empio e i Padri della Chiesa gli riservano un posto speciale nel bestiario del demonio; il corvo rappresenta ora il peccatore, reso nero dal fango delle proprie colpe, ora l'incarnazione stessa del diavolo e di tutte le forze del male. In epoca moderna la cattiva fama del corvo prende forma nelle favole, nei proverbi, nella lingua e nel lessico [pochi sono gli uccelli il cui dispregiativo – corvaccio – è entrato correntemente nella lingua – ndr]: animale dal grido luttuoso, uccello del malaugurio, delatore, personificazione della malvagità, è temuto perché associato all'inverno, alla rovina, alla desolazione e alla morte. Ma oggi il corvo si sta prendendo la rivincita: le più recenti indagini sull'intelligenza animale dimostrano che non solo è il più astuto di tutti gli uccelli, ma probabilmente è anche fra gli animali più intelligenti in assoluto…».
«La plurisignificanza simbolica del corvo» rimarca Cattabiani [2] «che appare di volta in volta come demiurgo e civilizzatore, profeta e chiaroveggente, messaggero degli dei e diavolo, eretico e peccatore pentito, uccello solare e tenebroso, annunciatore di disgrazie e protettore, è spiegabile probabilmente col suo colore nero che ha sempre evocato simboli opposti: è il colore dell’inizio (la notte del ventre materno e della terra che prepara la germinazione della pianta); ma lo è anche della morte, della disintegrazione del vivente, del buio eterno.» 

Nella poesia moderna e contemporanea europea l’impronta nera, in senso simbolico, è inequivocabile: così Edgar Allan Poe nel celeberrimo The Raven, nella notte di confine tra vivi e morti, dedica all'animale inequivoci aggettivi: «macabro», «oscuro», «spettrale, scarno uccello di sventura»,«Profeta, seppur del maligno! – diavolo o uccello» [3]. E Corvo di Ted Hughes, che spesso simboleggia il lato oscuro e subconscio della natura umana, nella “Prima lezione di Corvo” [4], è incapace di accogliere la parola amore che Dio vuole insegnargli, evoca squali, vomita tafani, mosche tsetse e umane teste mozzate. Ne Les Corbeaux (1895) Arthur Rimbaud, evocando uno scenario invernale di “campi freddi”, “casolari diroccati” “fossati” e “coltivi […] ove dormono i morti”, pur aggettivando i corvi come “chers” e délicieux”, cari e delicati, non si esime dall’usare l’etichetta di “funèbre oiseau noir”, funereo uccello nero.

L’attribuzione funesta, che nella cultura occidentale moderna è diventata predominante, è utilizzata anche, venendo alla poesia italiana, da Primo Levi nel suo bestiario poetico: 


Il canto del corvo, di Primo Levi [5]

‎Sono venuto di molto lontano ‎

Per portare mala novella. ‎

Ho superato la montagna, ‎

Ho forato la nuvola bassa, ‎

Mi sono specchiato il ventre nello stagno. ‎

Ho volato senza riposo,‎

Per cento miglia senza riposo,‎

Per trovare la tua finestra ‎

Per trovare il tuo orecchio

Per portarti la nuova trista ‎

Che ti tolga la gioia del sonno, ‎

che ti corrompa il pane e il vino, ‎

Che ti sieda ogni sera nel cuore. ‎


Così cantava turpe danzando, ‎

Di là dal vetro, sopra la neve.‎

Come tacque, guardò maligno,‎

Segnò col becco il suolo in croce

E tese aperte le ali nere.‎


Qui il corvo è l’uccello del malaugurio per antonomasia, colui che ‎porta la “mala novella”, ovvero l’annuncio della Shoah come antitesi dell’Annunciazione evangelica.‎

Un poeta piemontese di fine millennio, Silvio Bellezza (1941-2000), dalla poetica ispirata dai temi della montagna, dei suoi paesaggi, uomini e animali, affresca, quale scenario per il volatile (presenti anche gli altrettanto neri merli), un paesaggio invernale «dal bianco mantello». 


Corvi, di Silvio Bellezza [6]

Ho ascoltato i pensieri dei corvi, stamane,

sotto l'angolo del tetto, mentre un bianco

mantello copriva le spalle dell'eroico fante

che avvinghiato alla bandiera incita l'assalto.

(E le nuvole cavalcavano i monti con minacce

di neve, ma guardando dai vetri mio nonno

diceva: sotto la neve pane)

Noi, invece, pensavamo a tendere trappole

ai merli con un po' di granturco sotto

un setaccio, ma sovente il grano spariva

e dei merli restavano solo le impronte

sulla neve già alta. la sera, quando i comignoli

lanciavano sguardi anneriti.


Anche in montagna al mese di luglio

li ho trovati. Aspettavano che i gitanti

lasciassero pacchi dietro le pietre

per poi squassarli a colpi di becco.


L’inverno, stagione eletta per la rappresentazione dei corvi, contiene in sé l’ambivalenza del chiaro-scuro e della morte-rinascita (incubazione della vita, «sotto la neve pane»), consonando alla citata plurisignificanza del nero volatile. Interessante notare come uno degli elementi più caratteristici e - strictu sensu - impattante del corvo, cioè il suo gracchiare rumoroso, venga con splendida invenzione declinato da Bellezza come ascolto «dei suoi pensieri».

Un altro poeta piemontese contemporaneo, Sergio Gallo, che da anni sta pervicacemente percorrendo una via poetica di ispirazione scientifico-naturalistica, personale o quanto meno peculiare, con ascendenze a Pierluigi Bacchini e Gianpiero Neri, ha perfino intitolato, curiosamente, una sua intera opera al nostro pennuto: Corvi con la museruola. Nella poesia eponima, rivolge l’attenzione proprio al verso, a quegli «aspri gracchianti stridii» che, con ampia allegoria, per il pugnace autore emettono coloro «che si credono abili poeti/ e [che] come virtuosi auleti» si vantano d’indossare «un’ingombrante imbrigliatura» [7]. Il poeta-usignolo, la poesia-allodola decaduti alla disarmonia dei poeti-corvi! Per giunta con l’ossimorica museruola che non serve, come ci si attenderebbe, a far tacere, ma a sostenere il dissonante canto dell’auleta-corvo. Museruola che certo non indossa Sergio Gallo nel dettare il suo ampio testo, del quale propongo a malincuore solo le due prime significative strofe delle totali cinque del componimento. 


Corvi con la museruola, di Sergio Gallo [8]

Quelli che si credono abili poeti

e come virtuosi auleti

per non disperdere la loro

preziosa saccente boria

un’ingombrante imbrigliatura

si vantano d’indossare,

un orrendo bavaglio in cuoio

dove incastrare i loro flauti

a doppia ancia e musica soave

pretendono di propinare…


Nemmeno lontanamente sanno

imitare il canto melodioso

dell’allodola, dell’usignolo

i trilli e i ritmati gorgheggi

del cardellino, del fringuello

la acute vibranti note

del pettirosso, del merlo

il basso lamento dell’upupa.

Solo aspri gracchianti stridii

riescono ad emettere.

[…]



Note

1 - Michel Pastoureau, Il corvo. Una storia culturale, Ponte delle Grazie, 2021

2 - Alfredo Cattabiani, Volario, Mondadori, 2022, p. 310

3 - Edgar Allan Poe. Nevermore. Poesie di un Altrove, a cura di Raffaela Fazio, Marco Saya Ed., 2021, p. 59

4 – in Ted Hughes, Crow:From the Life and Songs of the Crow, Faber and Faber, London, 1970

5- Primo Levi, Ad ora incerta, Garzanti, 1984

6- Silvio Bellezza, La neve rossa, Genesi, 1999, p. 27

7 - Sergio Gallo, Corvi con la museruola, LietoColle, 2017, p. 126: «gli auleti, antichi suonatori di flauto in Grecia erano soliti indossare la phorbeia, armature di cinghie di cuoio che favoriva la tenuta d’aria e che aiutava a fissare lo strumento alla bocca»

8 – ibidem, pp. 72-73


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